Ciò che può apparire paradossale della Storia è il suo dover fare costantemente i conti con se stessa ed affrontare in ciò il rischio di superficiali quanto retorici revisionismi. E’ lapalissiano dire che essa viene scritta dagli uomini, pertanto le generazioni che si susseguono hanno l’onere, non sgradevole per alcuni, di affrontare e “giudicare” la lezione e l’esperienza di chi li ha preceduti. Così i primi anni “50 del XX secolo sono stati orlati del sangue di milioni di vittime. Bambini che non sono mai diventati grandi, donne e uomini a cui sono stati sottratti diritti e dignità ed etnie, singole popolazioni vituperate in ogni modo.
Nazismo, fascismo, franchismo, comunismo, Gulag, sionismo, Shoà. Arthur Koestler ha conosciuto tutte queste forme di estremizzazione delle ideologie umane partendo dalla sua unica passione per la politica di cui egli stesso fu schiavo e vittima. Il suo percorso esistenziale ebbe inizio nel 1905 in Ungheria dove nacque da famiglia ebrea. Da questa complicata terra partì poco più che ventenne alla volta della Palestina esaltato dallo Zohar, movimento revisionista sionista fondato da Vladimir Jabotinsky e lì visse in un Kibbutz. Si trattò ben presto di un esperimento mal riuscito che condusse il giovane Koestler, studioso di scienza e tecnica, ad orientarsi verso il comunismo sovietico che iniziò ad osservare come corrispondente di un giornale tedesco gestito dalla famiglia degli Ullstein. “L’URSS è un grande esperimento sociale a cui guardare con occhio affettuoso e sgombro da pregiudizi”– scrisse in un passaggio de la “Freccia nell’azzurro” (1905-1931) uno dei suoi saggi autobiografici. Gran parte della sua produzione è stata condizionata dalle intricate vicende biografiche a cominciare dalla sua ufficiale adesione al Partito Comunista nel 1931 da cui fu affascinato per moto intellettuale “come se l’intero universo si ricomponesse come pezzi di puzzle radunati di colpo da una bacchetta magica” (cit.).
In Koestler questo rapimento è avvenuto in due fasi: emotiva e poi razionale, quest’ultima legata alla logica dei fini di cui i sovietici si servirono per esprimere lo slogan “il fine giustifica i mezzi” rubato ad un noto pensatore italiano del “500. Fu però la scoperta del Gulag e della Grande Carestia del 1932-33 a scalfire per sempre nello scrittore ungherese le sue convinzioni. Cinque milioni di sovietici furono condotti alla morte per fame. Si trattò ,come ben sappiamo dalle cronache, di una carestia pianificata con calcolata freddezza. Koestler era di indole troppo avversa alle ingiustizie terrene per continuare quel suo percorso. Così alla vigilia di un nuovo e più terribile conflitto mondiale decise di rifiutare la dottrina comunista senza però riconoscersi in nessuna delle nuove idee circolanti in Europa. Né la Spagna di Franco, né la Germania hitleriana, tantomeno la Francia di Petain furono per lui terre ospitali. Si sentì bensì esiliato e come tale fu trattato soprattutto in Francia dove tra il “39 e “40 ,con l’accusa di spionaggio, fu internato nel Lager di Le Vernet dove conobbe tra gli intellettuali rinchiusi, Walter Benjamin, Will Meuzemberg, Heinrich Mann.
Questo condensato di esperienze esaltanti e fallimentari che si sono succedute alternativamente in giro per l’Europa e la allora Russia, ha ispirato numerosi saggi storici tra cui “La pena di morte” scritto con Albert Camus, “la tredicesima tribù” ed “i Sonnambuli”. In essi Koestler tenta di ragionare dialetticamente e radunando le sue profonde conoscenze scientifiche e filosofiche dei fatti che hanno determinato il mondo così come lo si conosceva ai suoi tempi. Fu autore di una piéce teatrale: “Il bar del crepuscolo” e di numerosi scritti biografici come il già citato “Freccia nell’azzurro”, “Dialogo con la morte” e la “scrittura invisibile”.
Vivendo di penna e politica la sua persona fu emblematicamente racchiusa e testimoniata da tre romanzi che la critica definisce “la trilogia di Koestler”. Si tratta de “I gladiatori” del 1939, “Buio a mezzogiorno” del 1940 e “Arrivo e partenza” del 1943.
Nel primo libro l’autore paragona la storia del gladiatore Spartaco ambientata nel I secolo A.C con quella del periodo dei primi anni del XX secolo dove il sogno di eguaglianza viene offuscato come accade per lo schiavo-gladiatore. Il secondo è l’opera meglio conosciuta e diffusa di Koestler. Si racconta la travagliata vicenda umana e politica di Nicolaj Rubasciov, alter ego dello stesso autore, che dopo essere stato commissario politico ai tempi di Stalin viene arrestato subendo gli stessi interrogatori aberranti e mortificanti la propria volontà che egli stesso ebbe in passato inflitto con la differenza che in tal caso non esiste contrappasso poiché l’efferatezza dei suoi aguzzini lo porterà ad autoaccusarsi di colpe mai commesse. Il terzo romanzo tratta del dissidio interiore del protagonista tra le esigenze morali e quelle opportunistiche che la società costringe a scegliere.
Dopo questi libri la vita di Koestler non fu più la stessa. Vittima di quel suo sentimento di perenne esule e sconfortato dalle iniquità umane, all’età di 78 anni ricorse al suicidio accompagnato dalla sua terza moglie.
Negli anni “70 in una rara intervista dichiarò “Non volevo essere un complice passivo di ciò che accadeva in Russia in nome del Partito. Nessun movimento, nessun personaggio può pretendere il privilegio dell’infallibilità”. E’ una lezione che umilmente ciascun Partito politico moderno dovrebbe tenere a memoria.