Respiro ancora, purtroppo. Cerco solo il modo giusto, quello per soffrire meno. Pensarci di notte è più facile: tutto è cupo. La notte assomiglia alla morte. È come una figlia che ha ereditato i colori della madre e l’altezza del padre, il giorno. Perdere il fiato è quello che voglio. Oppure morire d’inedia, lentamente, come un corpo a galla che attende il mare.
Il mare parlava e gli piaceva parlare. Io lo ascoltavo, qualche volta. Mi raccontava dei suoi problemi di salute, la vecchiaia che avanza, i reumatismi. In genere, però, ero io a parlare. Anche se bisbigliavo lui mi sentiva lo stesso. L’ascoltare non gli piaceva quanto il parlare, ma gli riusciva bene comunque perché sapeva donare degli ottimi consigli. Ricordo i suoi silenzi e i suoi schiaffi senz’amore.
Senz’amore per il prossimo scrutavo le persone. Il parco straripava di gente d’ogni età e qualsiasi volto focalizzassi ero sicuro di odiarlo. Scendevo la mattina per odiare le persone. Le guardavo e le seguivo con gli occhi, concentrando ogni pensiero sullo schifo che tutta l’umanità faceva germogliare in me. I bambini soprattutto, anime del diavolo. E poi i loro genitori, procreatori incoscienti.
Il sonno mastica le idee, uccidendo la ragione.