Ian Kevin Curtis.
Alla maggior parte delle persone questo nome non dirà niente.
Ian è stato una cometa; è venuto al mondo e se n’è andato troppo repentinamente, avendo cura -però- di lasciare un’eredità immortale: le sue canzoni! Nel 1977, a Manchester, fondò con altri membri il gruppo “Joy Division” di cui fu cantante e paroliere. Appassionato di storia, opere decadenti e romanzi ottocenteschi (i cui echi ritornano forti nelle canzoni), amante di Nietzsche, Dostoevskij, Hesse, Kafka e Ballard, Ian fu anche grande ammiratore di personaggi della musica del tempo come Jim Morrison e David Bowie. Fin da piccolo fu costretto a convivere con la malattia: un’epilessia fotosensibile che condizionò la sua esistenza a tal punto da indurlo al suicidio a soli ventiquattro anni. Il secondo (e ultimo) album dei Joy Division può considerarsi, senza dubbio, il suo testamento spirituale. Si tratta di un lungo, freddo, calcolato addio alla vita; tra i testi spicca “Colony”, in cui una chitarra singhiozzante introduce ad un mondo indifferente, senza significato e valori in cui Curtis -eterno disadattato- esprime il suo sgomento e il suo dolore:
“Non riesco a capire la ragione/ di tutti questi intralci/ Niente vita familiare, ciò mi fa sentire a disagio/ da solo qui in questa colonia ”.
Impossibile non riconoscere in questo testo l’eco forte di un famoso racconto di Franz Kafka: Nella colonia penale, scritto nel 1914. Il testo è breve, ma forte, intenso e -come ogni opera dello scrittore boemo-, enigmatico. Lo scenario è quello di una colonia penale, in cui un esploratore straniero si trova ad assistere all’esecuzione di un soldato condannato a morte:
Un capitano stamane ha presentato denuncia contro quest’uomo perché, essendogli destinato come attendente e dormendo davanti al suo uscio, si è addormentato durante il servizio. Lui infatti ha la consegna di alzarsi ad ogni batter d’ora e di fare il saluto davanti all’uscio del suo ufficiale: una consegna sicuramente non difficile, ma ben necessaria per mantenersi alacre nello svolgimento dei suoi compiti sia di guardia sia di domestico. La notte scorsa il capitano volle verificare se l’attendente faceva il suo dovere: al suono delle due aprì la porta e lo trovò che dormiva, tutto raggomitolato. Allora prese lo scudiscio e lo frustò sul viso; e costui, invece di alzarsi e implorare perdono, afferrò il signore per le gambe, lo scrollò e si mise a gridare: “Butta via quella frusta, o ti mangio!”
La pena consiste nel sottoporsi a una macchina che imprimerà sul corpo del condannato la sua colpa, fino poi a dilaniarne lentamente le carni. L’esecuzione è affidata a un ufficiale, erede del vecchio comandante, inventore della macchina. Quest’ultimo, avendo notato che l’esploratore non mostra alcun entusiasmo per la macchina e temendo che il suo giudizio possa influenzare il nuovo comandante, espone nei minimi dettagli il funzionamento e il significato della pena. Non essendo riuscito a convincerlo, l’ufficiale decide di sostituirsi al condannato programmando la macchina affinché scriva sulla sua carne il verdetto: “Sii giusto!”. La macchina però impazzisce e, anziché limitarsi a scrivere, dilania il suo corpo. L’esploratore tenta di salvarlo, ma non ci riesce.
Il racconto è ricco di simboli e significati. L’allegorismo di Kafka è famoso; ogni scritto va letto, sezionato, analizzato e spesso si risolve in un nulla di fatto. Quello che è riconoscibile in questo testo è senz’altro il tema della giustizia e della colpa; una colpa da cui non si può prescindere e da cui non ci si può in alcun modo difendere. Ognuno nasce colpevole, ma ad alcuni non sembra pesare. Le anime più sensibili, invece, la colpa se la auto imprimono e allo stesso tempo da sole si condannano: proprio come ha fatto Ian.