Viaggiare come esplorazione di un’identità in divenire. Cosa se non questo ha spinto da sempre migranti e peregrini a lasciare il proprio pezzo di mondo per provare a costruirne un altro. Chi per necessità, chi per restlessness, chi per mancanza d’altro: tutti per fame. Il cibo, infatti, diventa presenza culturale e dispersione identitaria di tutti coloro che nella valigia chiudono una speranza e un paio di calzini di ricambio. Si lascia una terra e si portano con sé i suoi frutti. È stato così per gli immigrati italiani in America che hanno vissuto il distacco come una mancanza di odori e sapori, che hanno lasciato la nonna in cucina a preparare il sugo per il pranzo della domenica, loro che la domenica mangiavano da soli in un diner. Di questo, ad esempio, parla Simone Cinotto ne La cucina diasporica: il cibo come segno di identità culturale, o John Fante in Dago Red, o ancora Merica. Forme della cultura italoamericana, curato da Nick Ceramella e Giuseppe Massara. La stessa realtà era vissuta dagli emigrati meridionali, a Milano Centrale con la valigia di cartone piena di fagioli, pane, conserve e fichi secchi. Tema sapientemente dibattuto da Paola Corti in Emigrazione e consuetudini alimentari: l’esperienza di una catena migratoria. Tale condizione di separazione viene sperimentata tuttora dagli studenti fuori sede, che la sera prima di partire mettono nel trolley la pasta al forno della mamma e un pezzo di frittata della zia.
Memorie di viaggio, diari, lettere, romanzi d’avventura: ogni pagina trasuda zuppa di verdure, minestrone vegetale, ragù. L’odore di quei libri non è né di fresco di stampa, né di polvere annoiata fra le righe. No: è di parmigiana di melanzane, sartù di riso, caponata, spaghetti al pesto siciliano. L’inchiostro è concentrato di pomodoro, miele selvatico, nero di seppia, latte di mandorle. Sulla pagina prende forma l’identità di chi scrive, frutto di uno scontro e incontro con un mondo affamato di risorse e sazio di semplicità. Donne e uomini in viaggio rielaborano il rapporto con il proprio paese di origine mescolando profumi ignoti a essenze conosciute, spezzettando la propria identità come si fa con le carote e il sedano per preparare il soffritto. Massimo Montanari parla proprio di questo nel volume da lui curato, Il mondo in cucina. Storia, identità, scambi.
La digitalizzazione della lettura non asfissia e non muta questo universo di sensi. Anzi, Twitter, Facebook, Instangram e Pinterest rendono labile e impalpabile la dimensione visiva e olfattiva di foto e istantanee. Non è un caso che oggi i blog di viaggi nascono come funghi sullo sterminato terreno mezzo incolto di Internet. A cambiare, invece, è il rapporto che il viaggiatore ha con il cibo. Il patriottismo culinario lascia il posto alla multiculturalità gastronomica. Nella valigia si lascia uno spazio vuoto per il Munster alsaziano, il Chardonnay australiano, lo zighini eritreo, il bun cinese, il samosa indiano, l’asado argentino, il mouttabal giordano. Blog come Legal Nomads, Uncornered Market, KatieParla, Joy the Baker, Smitten Kitchen sono solo alcuni esempi di tale cambiamento cultural gastronomico. In essi l’esplorazione diventa funzionale alla scoperta di ingredienti, spezie, piatti raffinati e cibo di strada. Il cibo, insomma, oggi diventa stimolo per mettersi in cammino e smette di essere ancora del porto famigliare. L’atto stesso del mangiare, anziché metafora di costruzione corporale e spirituale, si trasforma in simbiotica assimilazione culturale di ciò che è altro da sé.
Ieri come oggi, tuttavia, il mondo, quello di Schopenhauer, viene metabolizzato dal wanderer in quanto cibo. La volontà di partire e la rappresentazione del cammino conoscitivo sono paradigmi di definizione dell’oggetto, il cibo, essenziale all’identificazione del soggetto, il viaggiatore, categoria fluida come l’acqua che bolle… (butta la pasta).