Ho sempre creduto, sin da bambina, che la specialità della letteratura, e dei libri, fosse che, indipendentemente da quello che accadeva nel mondo, una volta aperto il volume e cominciato a leggere, ci si sarebbe dimenticati di tutto: ogni brutta notizia, ogni preoccupazione, tutto; e ci si sarebbe trovati altrove, in un posto non identificato, che è quello della suggestione, dell’emozione, dell’immaginazione. Ed è così, in effetti.
Ogni libro è un universo a sé stante, in cui le dimensioni spazio – temporali sono sfasate rispetto alla vita di chi ha deciso di iniziare questa nuova storia.
Ed è così che, grazie alla lettura, ho scoperto I misteri di Parigi, e sono stata letteralmente catapultata nella capitale francese dell’800 a fianco dell’enigmatico Rodolphe di Gerolstein, della dolce Fleur – De – Marie, dello Chourineur, assassino in fondo buono. Ho segretamente maledetto la Chouette, mi sono chiesta fino a che punto si possa detestare un personaggio di cui si conosce la caratteristica principale, l’invenzione. Eppure questo diventava un elemento di poco conto, come quelle note nei libri scolastici che per principio ti rifiuti di leggere.
Allo stesso modo, ho viaggiato per mare con Melville, alla ricerca di quella balena bianca, di Moby Dick, senza accorgermi della portata culturale che quel romanzo racchiudesse; io, da parte mia, non facevo altro che seguire il capitano Achab, appoggiarlo in questa ‘caccia alla balena’, nonostante – bisogna ammetterlo – sia fortemente contraria alla vendetta come soluzione dei torti subiti. Però, si sa, quando vedi di buon occhio qualcuno vai sempre oltre i suoi “difetti”.
Mentre leggevo Cecità, mai mi sono domandata come potesse essere possibile che, di punto in bianco, nel mondo la gente si svegliasse come fa di solito e a poco a poco, uno per uno, diventassero tutti ciechi. Sì, certo, ho strizzato un po’ gli occhi, ma mai mi sono detta: “Tutto ciò non è credibile!”. Il libro, mai, ha perso smacco, anzi, ne ha acquistato in originalità, in suspense.
Eco, a tal proposito, dice:
“Nel leggere un testo narrativo noi sottoscriviamo tacitamente un patto con l’autore, il quale fa finta di dire qualcosa di vero e noi facciamo finta di prenderlo sul serio, proprio come i bambini, usando il loro meraviglioso imperfetto funzionale, giocano dicendo ‘Io ero il bandito, tu eri il poliziotto’. Nel fare questo, ogni asserzione romanzesca disegna e costituisce un mondo possibile e tutti i nostri giudizi di verità o falsità si riferiranno non al mondo reale ma al mondo possibile di quella finzione.”
Ed è esattamente questo che succede.
Eppure, qualcosa è cambiato. Negli ultimi anni ho notato che vanno diffondendosi a macchia d’olio storie ispirate o completamente basate su fatti realmente accaduti: autobiografie di vittime sopravvissute a non so quale tragedia, resoconti di viaggi intrapresi, indagini su aspetti politico – sociali del proprio paese. La riflessione è sorta spontaneamente: cosa è cambiato nella fruizione della letteratura da spingere un numero sempre più alto di scrittori ad optare per la realtà? La realtà batte l’immaginazione, al giorno d’oggi? Cosa spinge, adesso, gli scrittori a scrivere? Antonio Tabucchi diceva:
“Si scrive per stabilire una vicinanza d’altro tipo con il mondo, simile a quella del bambino che, quando gioca, assume come verità incontestabile il suo stesso gioco. Una verità espressa sul piano simbolico, per la quale la finzione supera e sconfigge l’illusione, diventando così ‘prassi’, sforzo fisico. Insomma, la scrittura è una forma di riappropriazione del mondo.”
Lo sostengono Calvino, Pirandello, e molti altri. Se alla letteratura si è attribuito tale ruolo di straniamento/riappropriazione del mondo, cosa è successo?
La vita ha fatto irruzione, ecco cosa è successo. Scrittori di grande spessore hanno fatto una scelta, tra la pubblicazione di un romanzo e l’altro.
Roberto Saviano ha esordito nel 2006 con Gomorra – Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra (2006), in cui denuncia la realtà criminale di luoghi come Napoli, Casal di Principe, dove l’autore ha vissuto ed ha visto cose che il lettore ignora. E il libro, un “saggio romanzato”, ha scalato le classifiche non soltanto italiane, ma di decine di Paesi in tutto il mondo.
Khaled Hosseini ha scritto Mille splendidi soli (2007) ed ha esplicitamente dichiarato di aver parlato, prima di scrivere, con molte donne a Kabul e di essersi trovato a pensare a loro con una tale insistenza da trovare la motivazione per quel romanzo; egli specifica che né la storia di Miriam né quella di Laila si rifanno in particolare ad una delle donne incontrate, ma il loro dolore, le loro storie di sopravvivenza, le loro voci, sono state il motore della sua ispirazione.
Salman Rushdie, dopo il caso letterario dei suoi Versetti Satanici, in cui rivisita in chiave onirica l’episodio dell’ispirazione diabolica di Maometto, che gli comporta l’annuncio della sua condanna a morte da parte dei fondamentalisti islamici, decide di raccontare nell’autobiografico Joseph Anton gli anni trascorsi da uomo sotto scorta, privato della sua libertà a causa della fatwa di Khomeini, che lo ritenne colpevole di bestemmia e quindi giustiziabile da chiunque fosse stato un islamico.
E gli esempi continuano: una delle collane più originali degli ultimi anni è Contromano, della casa editrice Laterza, nella quale a giovani scrittori è data la parola – la penna – per scrivere di qualcosa che conoscono, i luoghi della loro vita: si parte da uno sguardo particolare per descrivere i cambiamenti della contemporaneità attraverso scrittori ‘freschi’, capaci di dire, raccontando. Tra i titoli, ricordiamo Torino è casa mia di Giuseppe Culicchia, Milano non è Milano di Aldo Nove, Foto di classe di Mario Desiati, L’Italia spensierata di Francesco Piccolo, Né qui né altrove. Una notte a Bari, di Gianrico Carofiglio.
Allora la scelta dipende forse dal lettore: orientarsi verso uno dei tanti mondi possibili che gli vengono offerti, a seconda di come ci aggrada in quel momento. Anche perché, qualsiasi argomento si narri, in ogni libro ci parrà di scorgere il riflesso verosimile del proprio mondo. Ed è questa, io dico, la più bella cosa della letteratura.