Mi sono portata dietro Gemma per farmi forza. Questa bambina che sembra un batuffolo di cotone si aggrappa al mio braccio, come se capisse dove siamo.
Apro la porta di legno e muffa e subito l’aria vecchia della casa mi investe. Ho già paura dei ricordi che mi assaliranno.
Cammino piano, i passi lenti e spaventati. Calpesto il pavimento per metà rosicchiato dal tempo, lo stesso sul quale tante volte ho giocato seduta. Quelle bambole consunte e logore strette dalle mie mani da bambina, i loro vestiti cuciti con impazienza dalla mamma. È una morsa al cuore improvvisa, un dolore acuto, che mi dilania.
C’è polvere dappertutto: nel salone, sui mobili, dentro una tazzina da caffè dimenticata sul lavandino. Questa casa puzza di chiuso ma sto ferma. Non apro la finestra, non controllo se c’è roba scaduta nel frigorifero, se da qualche parte nel muro c’è la muffa. Rimango chiusa nel mio silenzioso religioso, piano piano mi spengo.
Gemma piagnucola, è evidente che si sta annoiando. “Ancora un momento, piccola”, le sussurro mentre accarezzo la sua testolina morbida.
Spingo il passeggino per tutta la casa, mostro a mia figlia il posto in cui sono nata e cresciuta, la stanza in cui ho ospitato i primi amori ed il letto in cui li ho pianti. Lei col suo silenzio capisce, mi guarda con due occhietti di luce che per poco non mi fanno sciogliere in lacrime.
E’ quando arriviamo in cucina che scende dal passeggino da sola. Lo fa con un movimento rapido e sicuro, come un gesto studiato da tempo. Si aggira per il corridoio della casa, mette le mani ovunque: le infila su un posacenere abbandonato, tocca la vecchia radio rossa, il servizio di porcellana. Finge di mordere una mela di plastica che mia madre teneva sul davanzale, lei andava pazza per queste cose. Mi chiede cos’è questo e quello, e con il suo indice bianco e mingherlino indica mezza casa. Sono quadri, tutti quadri, le dico, e lei s’acquieta per un po’. Poi raggiunge la mia camera, il letto ancora intatto, le lenzuola che hanno assorbito il freddo e l’umidità, insultate dal tempo: sono ruvide, sembrano asciugamani. Come un automa arrivo fino alla scrivania all’angolo, quella su cui facevo i compiti la sera dopo cena. Apro tutti i cassetti facendo un po’ di rumore, vado a scassinare i miei ricordi. Eccoli lì, i miei fogli, le mie lettere, i disegni e le storie che scrivevo. Eccole lì che scavalcano la carta e tornano alla mia memoria: si risvegliano dopo anni di letargo.
Poi gli armadi, i vestiti di una volta, le bambole di ceramica, quelle di pezza, le pentoline d’acciaio. I cappotti di papà, i suoi occhiali ancora sul comodino.
È tutto là, che anche se immobile s’accende di vita: le camicie a quadri si riempiono della figura di mio padre, i suoi capelli sale e pepe e la fronte sempre sudata. I grembiuli della mamma si allacciano attorno alla sua possente vita, si sporcano di farina e uova mentre prepara le torte per la colazione di domani.
Gemma si addormenta sul mio letto con il pollice in bocca. Mia mamma si sarebbe commossa, mio papà avrebbe finto di guardare altrove per non lasciarsi coinvolgere.
Mi avvicino a lei, la stringo forte al mio petto cercando di non svegliarla, di controllare i miei singhiozzi.
In questa casa tutto torna a vivere, sono io che lentamente mi sento morire.