Con la forza del passa parola, dei sussurri e delle grida, si sta lentamente imponendo come uno tra i più bei libri usciti quest’anno. Si tratta de “L’ultimo ballo di Charlot” di Fabio Stassi. Lungi dal voler fare bilanci azzardati, anche se congruenti con la fine del 2012 che stiamo vivendo, sento di dover affermare che questo libro è davvero una bella scoperta, una voce che parla la lingua dell’originalità e che l’editrice Sellerio può giustamente vantare di avere selezionato.
Una prosa venata di malinconia accoglie le confessioni del grande comico inglese Charlie Chaplin, inventore di una delle figure artistiche più originali del ventesimo secolo, che scrive una lunghissima lettera al figlio più giovane Christopher, avuto in tarda età.
Chaplin si sente incalzato dalla morte, ha ormai 88 anni e da almeno 6, ogni vigilia di Natale, riceve la visita della oscura signora che vuole portarselo via. Ma tra di loro è stato siglato un patto: se lui riuscirà a farla ridere, lei gli concederà ad ogni scadenza natalizia ancora un anno di vita. Le condizioni di quell’accordo sono state rispettate ormai per ben sei volte, e l’attore, sebbene in una sua maniera ormai patetica, è riuscito nell’intento; ma adesso si rende conto che il gioco tra lui e la morte è arrivato all’ultima replica. Da qui l’esigenza di raccontare ad un figlio che non vedrà diventare adulto nel tempo rimasto da vivere una diversa versione della prima parte della sua esistenza, declinata secondo un modello di cui le biografie ufficiali non hanno tenuto conto, ma che ha scavato profondi solchi negli anni a venire, determinando le ragioni della rabbia, della determinazione e del successo.
Gli narra della nascita nel carrozzone di un circo, dei genitori che si separarono subito dopo la sua venuta al mondo, del padre alcolizzato e della madre, la cui follia cominciò a manifestarsi quando dimenticò le parole di una canzone nel bel mezzo di una recita teatrale, e lui, ancora bambino, la sostituì per evitare di esporla ai fischi ed al lancio di monete.
Percorre con le parole tenere del ricordo il momento in cui sentì parlare del cinema da poco nato come dell’invenzione, non già dei fratelli Lumière, bensì di un oscuro inserviente di circo, che volle catturare il movimento aggraziato di una cavallerizza e testimoniarle così il suo amore devoto.
Racconta ancora del suo primo viaggio in America, di quella volta che tradì i progetti del suo impresario e partì in giro per la terra delle opportunità vivendo una vita precaria fatta di mille mestieri: tipografo, boxeur, imbalsamatore, perseguitato dalla miseria, dominato dal bisogno, non solo materiale ma anche quello di conoscere a fondo la vita prima di poterla rappresentare. Quando poi il cinema gli viene incontro come una promessa ancora tutta da mantenere, con le sue iniziali difficoltà ma anche con la freschezza dell’azzardo, di cui ogni novità è portatrice, il suo percorso sembra finalmente essersi definito, la fama si accende, il desiderio partorisce il successo. Eppure ci sono ancora nodi da sciogliere, ci sono case da visitare e persone cui rendere l’omaggio del ricordo. E così, di racconto in racconto, si arriva all’ultima riga, che riserva la trovata perfetta per l’uscita di scena.
Non sembri irrispettoso questo gioco letterario basato sull’immaginazione di una vita alternativa, poggiante su pochi punti veritieri dell’autobiografia di Chaplin. Si tratta invece di un’operazione complessa, che s’interroga sulla natura della memoria, sugli inganni della mente quando tenta di ricordare, sul valore del ricordo medesimo. L’autore ed il suo protagonista si prestano a vicenda la ribalta per inscenare un gioco visionario, dove la vita vera chiede in prestito a quella fantastica gli elementi per sostanziarsi di significato. Come nel film di Tim Burton “Big Fish” anche qui siamo alla presenza di un padre, che vuole allargare i limiti di un’esistenza conferendole un’intensità più vera del vero e donarla al figlio restituita del senso più profondo.
E così anche la comicità svolge questo ruolo “mancino” ed alternativo: rovescia il mondo, lo mette sottosopra, ma in fondo lo mostra per com’è veramente e si fa ribellione contro le ingiustizie, le umiliazioni, le miserie.
Tra donne cannone, pagliacci tristi, cavallerizze ed equilibristi, mestieranti di cinema, la figura sbieca del vagabondo Charlot ci appare come l’incarnazione di un sorriso accattivante di protesta.