Penso a te con la stessa struggente malinconia dell’ultimo giorno al mare a settembre.
La spiaggia si è svuotata, ma ancora c’è qualcuno dei bagnanti con cui si condivideva la spiaggia calda d’agosto. Le valigie sono fatte, in camera, ma ci si ostina, aspettando la nave del ritorno, a far finta che nulla sia imminente. Una giornata al mare come le altre.
Ma si fa l’ultimo bagno, con più foga si nuota fino al largo, per vedere da lontano un paesaggio che si conosce, ma si teme di non vedere più.
Si sta al sole, ma senza mettersi crema solare, perché la pelle è già abbronzata, e non ci si vuole ungere troppo, per non sporcare la maglietta rimasta fuori dallo zaino, da indossare in viaggio.
Si bevono due birre al bar, per serbarne il gusto il più a lungo possibile, così come due caffè, e magari una sigaretta in più, per il nervosismo che qualcosa non vada come deve.
Il sole è un po’ meno accecante, la luce è già cambiata. il buio viene prima e anche nell’ora più calda, si infila una mano sotto la sabbia per un secondo, per avere la sensazione di sabbia bollente, che ad agosto ci costringe a tenere le mani sull’asciugamano, e non fuori.
E si sente sulla pelle, verso la metà del pomeriggio, un brivido che prelude ad un inverno freddo, e pieno di affanni, e di certe tristezze che paiono scomparire durante un mese in un’isola straniera, ma che sono solo sopite, e che in certi sogni sotto il sole affiorano, leggere, lasciando un vago senso di inquietudine, che si spazza via con un “Ragazzi! Una nuotata?” o un’occhiata promettente alla fiamma di turno, che ci si illude sia qualcosa in più del nulla che invece è.
Penso a te con la speranza di ritornare su quell’isola e di non trovarla cambiata. Di rivedere su di essa la stessa lunghezza di spiaggia, la stessa marezzatura di conchiglie, la stessa conformazione dei sassi, spostati per bloccare posticci ombrelloni da nudisti, qua e là.
Col timore di tornare e rivedere un luogo caro, senza riconoscerlo.
Penso a te augurandomi che nessuno, in mia assenza, abbia il coraggio o la sfrontatezza di occupare liberamente un luogo che ritengo mio, e che magari abbia anche lo sprezzo di rovinarlo, di sporcarlo, senza alcuna ragione, se non il disinteresse per un luogo a sé indifferente, per altri incomparabile.
Penso a te, alla fine di quel giorno, salutando con lo sguardo un po’ bagnato le barche dei pescatori azzurre e bianche, con quell’aria così stanca, così saggia, di chi ha visto un mare brutto, pieno di pericoli, di chi non può raccontare proprio tutto.
Chissà se le stesse facce dei pescatori l’anno successivo saranno ancora lì, o ce ne sarà qualcuna in meno.
Penso a te, abbracciando e baciando le persone che ho incontrato o rivisto in questo mese.
Solite frasi, ci sentiamo, ci vediamo, io ci credo mentre sono lì, e spero, in fondo al cuore, di crederci sempre, anche in pieno febbraio, con la neve in città, e risentire da qualche parte quel calore, quella vicinanza tra persone che ho riconosciuto come simili, precariamente, per qualche settimana, che conoscono di me più di molti con i quali mi accompagno nelle mie serate invernali, convinta di stare tra i miei simili, o tra persone che conosco e che capisco.
Penso a te, alla fine, prendendo la mia roba, chiudendo la porta di una stanza che è stata il mio rifugio e quello dei miei sogni, e guardando avanti, facendomi coraggio, dicendomi che in fondo si torna a casa ed è stata solo una vacanza.