Quando nasci, cresci e muori nella guerra, non sai cosa sia il resto del mondo, non sai se esista un altro mondo. Ciò che impari da piccolo è ciò che ti accompagnerà per la vita: dolore e morte. E i modi per sfuggirvi sono due, fuggire o restare, combattendo. Fuggire non è sempre la scelta più semplice, allora non resta che restare, e resistere, violando prima il nemico, poi chiunque si interponga tra te e la tua terra.
Anche Samih al-Qasim, di una buona parte della sua vita, ricorda solo la guerra. Quella catastrofe che nel 1948 ha segnato l’inizio della fine, di un paese, di un popolo, di milioni di persone e di tanti bambini. E sono questi ultimi che dall’inizio dell’Al-Nakba (termine che indica l’esodo delle popolazioni arabe dalla Palestina, dopo l’assegnazione del territorio al popolo israeliano) hanno subito le torture, fisiche ed emotive più forti. Samih al-Qasim oggi è un giornalista e poeta, che si batte per dar voce al suo popolo, quello palestinese, raccontando quotidianamente ciò che in molti non vedono e non sanno.
A colui che scava nella ferita di milioni la sua strada
A colui che sul carro armato schiaccia le rose del giardino
A colui che di notte sfonda le finestre delle case
A colui che incendia l’orto, l’ospedale e il museo
e poi canta sull’incendio.
A colui che scrive con il suo passo il lamento delle madri
orfane dei figli,
vigne spezzate.
A colui che condanna a morte la rondine della gioia
A colui che dall’aereo spazza via i sogni della giovinezza
A colui che frantuma l’arcobaleno,
stanotte i bambini dalle radici tronche,
stanotte i bambini di Rafah proclamano:
noi non abbiamo tessuto coperte da treccia di capelli
noi non abbiamo sputato sul viso della vittima
(dopo averle estratto i denti d’oro)
Perché ci strappi la dolcezza
e ci dai bombe?
E perché rendi orfani i figli degli arabi?
Mille volte grazie.
Il dolore con noi ha raggiunto l’età virile
e dobbiamo combattere.
Il sole sul pugnale di un conquistatore
era nudo corpo profanato
e prodigava silenzio sul rancore delle preghiere,
intorno facce stravolte.
Urla il soldato della leggenda:
“Non parlerete?
Bene! Coprifuoco tra un’ora”
E dalla voce di Ala’uddin esplode
la nascita dei guastatori bambini:
io ho buttato una pietra sulla jeep
io ho distribuito volantini
io ho dato il segnale
io ho ricamato lo stemma
portando la sedia
da un quartiere…a una casa…a un muro
io ho radunato i bambini
e abbiamo giurato sulla migrazione dei profughi
di combattere
finché brillerà nella nostra strada il pugnale di un
conquistatore.
Sono prima i soldati e poi i bambini di Rafah i protagonisti di questa splendida poesia del giornalista arabo il quale, attraverso una crescente descrizione emotiva, ci parla di anime costrette alla violenza. Dove la guerra spazza via intere famiglie, e lascia orfani i bambini, dove i soldati indossano un casco per proteggersi, ma anche per non vedere al proprio fianco, dove le lacrime non esistono più perché di dolore si vive, non si sopravvive. E i bambini si uniscono, per farsi forza sì, ma anche per darsi da fare e cercare di cambiare tutto questo nero che guardano; ma non c’è nulla da ammirare. Non Ala’uddin a cui è stato imposto di credere che l’unico modo per vincere sia trovare un conquistatore più forte.
I bambini di Rafah sono quei bambini cresciuti nell’unico valico internazionale della Striscia di Gaza, passato dal controllo israeliano a quello arabo e dunque teatro di continui sconti. I bambini di Rafah hanno guardato i soldati camminar loro accanto su carri armati enormi, hanno visto macerie e hanno imparato a difendersi, diventando guastatori, perché non possono fare altro che usare l’unica arma a loro disposizione, la forza. Quella forza che permette loro di sperare che qualche adulto li guardi negli occhi, per vederci tutto quello che sono stati costretti a guardare.