Naturalismo e verismo. Una corrente artistica che nasce un po’ dovunque con il minimo comun denominatore della filosofia che ne è la base, e che assume nomi diversi nelle varie realtà nazionali. Soprattutto, appunto, naturalismo in Francia e verismo in Italia: Emile Zola come massimo esponente da una parte, Giovanni Verga dall’altra. Il substrato letterario si fonda sul concetto di impersonalità: la letteratura ha il solo scopo di essere aderente al vero, la narrazione deve essere oggettiva, asettica, scientifica; il filtro dell’autore deve scomparire, non c’è posto per qualsiasi atteggiamento che si sposi con il soggettivismo.
Esponente di un verismo ancora acerbo, di poco antecedente a Verga e lontano da risultati estremi, è Luigi Capuana, siciliano di Mineo (in provincia di Catania), cittadina nella quale viene alla luce nel 1839 da una famiglia di borghesia agraria. Molteplici i suoi interessi, così come i generi sperimentati: scrittore, critico, giornalista e fotografo, Capuana è un verista equilibrato, acuto osservatore della realtà e curioso indagatore di fenomeni psicologici e para-psicologici.
La sua prima opera di grande impegno reca la data del 1879 (ma una seconda, importante edizione esce nel 1886 con importanti modifiche ed una nuova veste linguistica): è Giacinta, il primo romanzo verista.
Dedicato proprio a Zola, Giacinta può essere letto come un romanzo di formazione al contrario. Di fatto è la storia della sconfitta di un fragile personaggio femminile, Giacinta appunto. Figlia di Paolo e Teresa Marulli e cresciuta in una famiglia incurante, la protagonista ricorda – attraverso le chiacchiere delle domestiche – un tragico episodio di cui aveva perso memoria: la violenza fisica, quando era ancora una bambina, da parte di un giovane servo di casa. Provata psicologicamente da un colpo durissimo, Giacinta reagisce con decisione, ma nella direzione evidentemente sbagliata: vorrebbe fare della trasgressione lo strumento di vendetta di una vita infelice, ma non ci riesce davvero, e il prezzo sarà carissimo. Innamoratasi di Andrea Gerace, un modesto impiegato, la donna decide di fare dell’uomo che ama il suo amante, convolando a nozze con il vecchio conte Giulio Grappa di san Gelso, persona verso la quale non nutre neanche la minima stima. Il conte sa perfettamente della tresca, ma non muove un dito per cambiare la situazione, accettando di vivere con la moglie un rapporto spento e privo di qualsiasi ragione. Andrea vive addirittura in casa, e solo l’intervento della madre di Giacinta – nel tentativo di salvare quantomeno l’apparenza – allontana l’amante dalla casa degli sposi. Intanto, un evento che si era mostrato inizialmente positivo sblocca la narrazione e determina il tragico finale: Giacinta partorisce una bambina; il padre, naturalmente, è Andrea, il quale però – già allontanatosi nei sentimenti dalla protagonista – non mostra altro che indifferenza quando la piccola, ammalatasi di difterite, muore. La gravità dell’atteggiamento fa comprendere a Giacinta come quell’amore in cui aveva tanto creduto sia finito per sempre. L’equilibrio psichico è minato e lo sbocco naturale è il suicidio.
Luigi Capuana appare in questo romanzo – secondo la maggior parte della critica, che non è stata tenera nei confronti dell’opera – diviso tra la fedeltà ai dettami veristi, che lo porta ad uno sguardo distaccato delle vicende (quasi come se tutta la storia fosse un una diagnosi medico-scientifica) e una partecipazione emotiva alla causa della protagonista, che a tratti è palese, e che dunque pregiudica parzialmente la finalità del progetto dell’autore.
Ma la tendenza europea all’oggettività e imparzialità della narrazione è arrivata anche in Italia, e parte dalla Sicilia: siamo solo a due anni da I Malavoglia di Giovanni Verga.