“A trent’anni la vita è come un gran vento che si va calmando.
Tante partenze, mutamenti, abbandoni, addii ai luoghi che ci piacquero, alle donne penetranti che ci sorrisero brevemente, alle idee, alle amicizie, ai grandi libri ai quali pure dobbiamo se abbiamo imparato qualche cosa, coincidono finalmente col fatto che noi non siamo più giovani.”
Questo l’incipit del “prologo in tre parti” della rivista “La Ronda” (1919-1922).
Lo scritto anonimo, toccante e deciso, che illustra le intenzioni e la linea del giornale, è stato ricondotto alla mano di Vincenzo Cardarelli.
Poeta, scrittore e giornalista, Cardarelli è stato dimenticato dalla critica e ignorato dal pubblico; eppure i suoi scritti rivelano un’anima sensibile e una capacità sublime di analizzare la realtà e l’interiorità umana. Tutta l’opera del poeta è impostata sul recupero della classicità, con particolare attenzione al recupero della dignità formale.
Nato Nazareno Cardarelli, il suo iter di studi si fermò alla licenza elementare; tuttavia grande era la voglia di apprendere, per questo formò il proprio sapere da autodidatta. A diciasette anni fuggì da Corneto Tarquinia e giunse a Roma, dove svolse i mestieri più vari e avviò la carriera giornalistica.
Dipinto da tutti come un uomo polemico, austero e scontroso, visse la maggior parte della sua vita nella più completa solitudine. Morì, solo e povero, il 18 giugno 1959; Ennio Flaiano racconta gli ultimi episodi della vita del poeta in un libro dal titolo emblematico: “La solitudine del satiro”.
Unico rifugio e compagna fedele: la penna. E Cardarelli ci ha lasciato un’eredità incredibile, scritti di una rara bellezza e profondità.
Tra le poesie, ce n’è una che trovo particolarmente toccante:
PASSATO
I ricordi,
queste ombre troppo lunghe
del nostro breve corpo,
questo strascico di morte
che noi lasciamo vivendo
i lugubri e durevoli ricordi,
eccoli già apparire:
melanconici e muti
fantasmi agitati da
un vento funebre.
E tu non sei più che un ricordo.
Sei trapassata nella mia memoria.
Ora sì, posso dire che
che m’appartieni
e qualche cosa fra di noi è accaduto
irrevocabilmente.
Tutto finì,
così rapito!
Precipitoso e lieve
il tempo ci raggiunse.
Di fuggevoli istanti ordì una storia
ben chiusa e triste.
Dovevamo saperlo che l’amore
brucia la vita e fa volare il tempo.
In questi versi, malinconici, il poeta dipinge il passato come una catena di ricordi, agghiaccianti appendici dell’uomo, che gli ricordano sempre e in ogni momento la sua finitudine, il suo essere effimero e sfuggente; essi costituiscono la morte in vita, piccoli lutti con cui cominciamo a convivere fin da subito. Eppure il passato imprime, rende le cose nostre, per sempre. E in questo modo il poeta guarda al ricordo della donna amata che, proprio perché “trapassato nella memoria” , è qualcosa di suo, gli appartiene e scorre nelle sue vene; è la prova inconfutabile dell’esistenza di un legame che, seppur per pochi istanti, ha dato senso e riempito la vita. Ma il tempo, feroce, con il suo scorrere incontrollabile, arriva prima o poi per spazzare via il presente e alimentare il passato.
L’amore non è mai stato amico del tempo.