– E per te, brodino.
Mia moglie ha appena impiattato un succulento piatto di gnocchi per sé e per l’erede mentre a me ha riservato una brodaglia di un vago color ocra.
La guardo perplesso e intanto cerco di ricordare quale colpa abbia commesso per ricevere un simile trattamento. Vabbè, ieri sera non ho voluto andare al cinema preferendo i polizieschi su RETE 4, però non mi sembra così grave. E comunque non al punto tale da vedermi negato il luculliano pranzo domenicale.
– Ti devi preparare, cretino – sbotta, al terzo mestolo, la consorte, che ha finalmente letto il mio disappunto.
Preparare? Oddio, mi sa che il peccato è assai più grosso di quello che avevo pensato!
– Babbo, domani devi fare la colonscopia – mi suggerisce mio figlio sputacchiando mezzo gnocco bisunto.
Cazzarola, me ne ero dimenticato, tra meno di ventiquattro ore un grazioso tubicino violerà il mio corpo! Dunque niente cibi solidi a pranzo e purga poi.
La tentazione di mandare tutto all’aria è forte.
– Alla tua età fai ancora i capricci, mangia che più tardi ti do il MOVIPREP – mi rimbrotta mia moglie che, come sempre in questi casi, assume i toni di un sergente istruttore.
Eseguo, il ruolo di marito e padre responsabile m’impone di afferrare il cucchiaio ora, e mandar giù il lassativo nel pomeriggio.
Un inferno.
Il mio intestino si produce in ogni sorta di contorcimenti, brontolii, stiramenti, contrazioni per tutta la serata obbligandomi a dolorosissime riflessioni sulla natura umana che terminano soltanto a notte inoltrata.
Così, la mattina del lunedì mi coglie, puro come un giglio, alla guida della mia utilitaria diretto alla volta dell’Ospedale S.Paolo.
– Scusi, mio marito dovrebbe fare una colonscopia.
Lo sceriffo di servizio all’entrata squadra attento prima mia moglie poi me. Infine, giudicandomi adeguatamente sofferente, ci fa passare.
– Terzo piano, gastroenterologia
Fosse così semplice!
Giunti al piano è praticamente impossibile scovare tra le tante tabelle e indicazioni quella che fa al caso nostro. Giriamo a vuoto per dieci minuti finché vediamo lampeggiare un camice bianco.
– Tornate indietro e prendete il corridoio opposto.
Ecco, appunto.
Ore 8,30 recita la prenotazione e, nonostante le deviazioni, approdiamo all’agognata meta con un quarto d’ora di anticipo.
In sala d’attesa, però, ci sono già quattro persone.
Fa fede l’ordine d’arrivo, non l’ora stampata sul tiket, avvisa un bigliettino appiccicato sulla porta con del nastro adesivo.
Ho voglia di piantarla lì e tornare a casa ma un’occhiataccia della mia metà mi riduce a più miti consigli.
Mi siedo e mio malgrado ascolto le vicissitudini altrui. Tempo un’ora e potrei stendere un trattato sui disturbi della motilità intestinale e sull’utilità del tubicino curioso. Ciò che più mi sconvolge è l’assoluta naturalezza con cui gli astanti parlano di diverticoli, polipi, angiomi, tumori quasi che la condivisione della pena ne alleggerisca il peso.
Sono sul punto di promuovere un gruppo di autoaiuto quando l’infermiere-usciere proclama solennemente il mio nome.
Grazia, mia moglie, trasale e, abbandonando definitivamente il fiero cipiglio che aveva indossato finora, trae fuori dalla tasca un’immaginetta di Padre Pio.
Ho appena il tempo di intenerirmi che il paramedico mi esorta nuovamente a entrare.
– Dai, che oggi abbiamo fatto tardi!
Oggi?
Il medico che mi accoglie ha la stessa cordialità di un frigorifero.
– Perché fa questo esame?
Perché mi fa male la pancia, sono tentato di rispondere ma mi rendo conto che non la prenderebbe bene e considerato che poi dovrà manovrare il tubicino, cerco una spiegazione più accademica.
– Negli ultimi mesi avverto dolori continui all’addome e disturbi alla digestione, quindi il mio medico curante mi ha consigliato di sottopormi a questo tipo d’indagine.
Sembra soddisfatto perché, dopo aver preso nota, m’invita ad accomodarmi affidandomi a un’infermiera che mi guida a uno spogliatoio.
– Si tolga calzoni e mutande, lì ci sono dei pantaloni di tela e delle ghette da mettere sulle scarpe, li indossi e poi venga di là.
Per un attimo mi sembra di essere in uno di quei telefilm americani di ambito ospedaliero, tipo E.R., dove tutti i pazienti hanno le loro brave tunichette monouso e il personale medico è dedito per intero al proprio lavoro.
Ma è solo un attimo.
-Ah, non dimentichi di portare con sé portafoglio e cellulare, sa com’è, non si sa mai…
Volevo ben dire!
– Bene, Luciano, ora facciamo una flebo per sedarla e poi procediamo.
Steso sul tavolo chiappe all’aria ho un attimo di terrore.
Sedarmi?
– Mai stato sedato? Mai avuto operazioni? Interventi?
Mi rendo conto che è difficile da accettare per voi, ma, no, mai stato su un tavolo operatorio e mai sedato, magari se lo sapevo prima qualche taglietto me lo facevo fare, così, giusto per non arrivare impreparato.
L’incazzatura, però, non ha il tempo di montare perché il sedativo comincia a fare effetto. Un senso di leggerezza mi pervade mentre come al cinema vedo scorrere sul monitor le immagini del mio intestino. Un budello lungo lungo e rosa in cui il tubicino s’intrufola con la sua telecamerina senza incontrare ostacolo alcuno.
Una ripresa magari non degna di un festival, ma un bel primo piano carrellato certamente.
– Tutto a posto, abbiamo finito.
E quindi?
– Non si preoccupi nessun tumore.
Questo è già qualcosa, e poi?
– Oh niente, qualche diverticolo ma niente che non si possa tenere sotto controllo.
Se lo dite voi….
– Ok resti qui e se le va faccia pure aria, ne abbiamo pompata un po’ per allargare le pareti del suo colon, altrimenti il tubo non scorreva bene.
Effettivamente la sedazione sta scemando e tutta l’aria insufflata comincia a premere sul ventre dolorosamente. Prima di rilassarmi come suggeritomi, però, ho un ultimo pensiero.
– Dottore, mi faccia la cortesia, esca e dica a mia moglie che sono ancora vivo!