Nativo quasi certamente di Alessandria, ma a lungo ospitato dalla splendida Rodi, Apollonio lega indissolubilmente la sua fama alle Argonautiche, il poema che rinnova l’antico genere epico. Scritto in esametri e composto da soli 4 libri (ma per un totale di ben 5835 versi!), le Argonautiche hanno costituito un terreno fertile per critici e filologi di ogni tempo: giuntoci praticamente integro e tramandato da oltre cinquanta manoscritti di età medievale, il poema epico di Apollonio Rodio ha goduto di una fortuna davvero invidiabile, con cui hanno dovuto confrontarsi – tra gli altri – il grande Virgilio nell’Eneide e successivamente Valerio Flacco, autore di un rifacimento dell’opera che reca il medesimo titolo. Oltre a tutto ciò, l’impronta della tradizione, che ha costruito con grande fascino – tra cose vere ed altre un po’ meno vere – il mito di un duello tutto letterario, a suon di versi, tra Apollonio e Callimaco: il primo allievo, il secondo maestro, entrambi personalità di spicco del fiorente periodo della Grecia alessandrina, quella Grecia che si confronta con l’ancora acerbo universo romano e che vive di gusti letterari nuovi, di mode passeggere. La tradizione vede in Apollonio il defensor del genere epico – lungo, eroico e consacrato dal genio di Omero – e in Callimaco il più importante esponente di una letteratura breve, semplice, che guarda alle piccole cose.
Quattro libri, si diceva, all’interno dei quali vengono narrate le gesta degli Argonauti – così chiamati dalla nave Argo, suo costruttore – protagonisti di una spedizione a cui capo c’è Giasone. Figlio di Esone re di Iolco, a cui il fratello Pelia ha però usurpato il trono, Giasone parte in seguito ad una missione affidatagli proprio dallo zio, che in realtà vuole solo sbarazzarsi del rivale ed erede al trono: il compito – non proprio dei più facili! – è riprendere il vello d’oro, ossia la pelle del prodigioso montone che aveva portato nella Colchide Frisso, il quale dopo aver perso il fratello Elle (in quello stretto, l’Ellesponto, che porta il suo nome) sacrificò l’animale e ne affidò la pelle ad un drago.
Sorvolando sui tanti fatti di amore e guerra, assi portanti della trama vera e propria, ci concentriamo invece sul significato del nuovo epos alessandrino. Aristotelico fino all’osso, Apollonio rispetta in pieno i dettami dello Stagirita in tema di unità di azione e luogo: le Argonautiche narrano infatti un solo tema (tutta la storia degli Argonauti) tra due estremi geografici che coincidono (Pegase, punto di partenza dell’avventura e approdo finale). Leggeremente diverso il discorso legato al tempo, che pur nel solco della tradizione aristotelica, tuttavia si spezza spesso tra presente, passato e futuro; e questo soprattutto in virtù dell’intervento dell’ io narrante – vera marca distintiva e innovativa dell’epos di Apollonio – che trasmette al lettore quasi un senso di acronìa.
E già siamo entrati nel pieno delle novità: similitudini al servizio di un’introspezione dei personaggi, visti sempre più come uomini e sempre meno come eroi; spiccate affinità con un altro genere letterario, il dramma, di cui riprende il clima e il contrasto tra apparenza e realtà; preziosismi lessicali e variazioni dei moduli espressivi cristallizzati da Omero.
Ma soprattutto il nuovo eroe: Giasone, per molti l’anti-eroe che parte per una spedizione di cui non afferra scopo e utilità, l’uomo che più volte è colto da incertezza, sconforto, e da quello stato d’animo che noi oggi più comunemente chiamiamo demotivazione.
Dall’altra parte Medea, la donna passionale, fredda e feroce che – pur inizialmente divisa tra desiderio e pudore – decide di votare sè stessa alla causa dell’uomo che ama, fino a tradire il padre ed ammazzare il fratello. Sembra ne valga alla fine la pena, perchè Giasone convola a nozze con lei: e qui, sostanzialmente, termina la vicenda.
Euripide, un paio di secoli prima, si sarebbe spinto a narrare la terribile furia vendicativa di Medea, prima sedotta e poi abbandonata. Ma questa è un’altra storia…