Era così che andavano le cose? Che nell’attimo esatto in cui desiderava fare qualcosa era troppo tardi? Che bisogna rinunciare a tutti i pezzi di un’esistenza come se in realtà non avessero nessun valore? La consapevolezza della propria impotenza era un peso tanto opprimente da farlo sentire debole. Non bastava spedire una lettera.”
Il pellegrinaggio è una questione complicata. Non ci si dovrebbe portar dietro altro che uno spazzolino, una saponetta, e una buona guida dotata di cartina.
Ma nell’immaginario collettivo il pellegrinaggio è ancora qualcosa di più.
C’è quel colore indefinito, che prende la parola stessa, l’idea di un viaggio astratto, nell’oscurità delle sofferenze, come un tunnel infinito che si percorre per raggiungere una luce abbagliante, una divinità o la soluzione al rebus della vita, ognuno dà il nome che ritiene opportuno.
Su questo punto gioca Rachel Joyce, che di capacità, nel saper rendere nitidamente l’immagine che ha in testa, ne ha di sicuro, e lo si intuisce fin dalle prime righe.
“The unlikely pilgrimage of Harold Fry”, un nome semplice, come l’uomo che lo veste.
Un pensionato che una mattina riceve la lettera di una ex-collega di lavoro, Queenie Hennessy.
La donna gli scrive per informarlo di essere gravemente malata, un tumore che non le lascia speranza di vita. Harold si siede sulla sua poltrona, pallido, Maureen continua a spolverare, osservando irritata il marito sconvolto.
Armato del suo abito migliore e di un paio di scarpe di tela, Harold decide di rispondere alla lettera di Queenie, e si inoltra oltre il giardino, verso la cassetta delle lettere.
Ma il cielo è di un blu accecante, e l’aria così invitante, ed Harold decide che no, non c’è niente di male nel proseguire oltre la prossima cassetta, e poi quella dopo ancora, e ancora.
Poi l’idea, la speranza, o meglio la fede, che il finale possa cambiare.
Harold decide di salvare Queenie compiendo un’impresa impossibile, percorrerà a piedi mille chilometri, e l’amica sopravviverà.
Il viaggio di Harold Fry è un pellegrinaggio attraverso sé stesso.
Come una fuga dal caos di una vita apparentemente ordinaria, rivede, negli incubi che lo perseguitano, le ombre dei suoi errori.
Le incomprensioni con il figlio, i silenzi con la moglie di cui vorrebbe risentire la risata, e i volti nuovi delle persone che incrociano il suo cammino, con le loro rughe di sofferenze e il bisogno di trovare un senso.
Ad ogni passo un ricordo, che si svela come un intimo, discreto, segreto condiviso solo con il lettore.
Rachel Joyce sparge come briciole indizi diversi in ogni capitolo, fino a quando il quadro non si completa e l’architettura è visibile nel suo insieme.
Con una sensibilità deliziosamente britannica, Joyce si muove nel confine che divide fede e realtà, forse a volte spingendo un po’ l’acceleratore sulla necessità della fede.
Nel suo complesso Harold Fry è un personaggio che commuove di un’intensa tenerezza, le immagini vivide delle sue paure si trasmettono, come in un filo elettrico, dritte al suo lettore.
E il successo di Rachel Joyce è indiscutibile, tanto che sono diverse le persone che hanno deciso di percorrere lo stesso itinerario di Harold.
Una vera e propria mania che ha risvegliato la curiosità di scoprirsi attraverso il viaggio.
Tra di loro, anche una blogger italiana monitorata dalla Sperling & Kupfer sulla pagina facebook.