Uno scenario desolato apre le pagine di questo libro. Pine Ridge è una “piatta radura di terra e fango”, niente pini a dispetto del nome. Chris Flynn è ospite di un carcere minorile nel Maryland, austera struttura in un posto squallido, estremo luogo dove recuperare un passato di piccola criminalità.
Tutti i ragazzi rinchiusi con Chris sono neri e provengono da esperienze familiari di abbandono e degrado, tutti hanno avvicinato la droga e la violenza. La struttura che li accoglie sposa il concetto di punizione prima ancora che quello di recupero, i giorni passano tutti uguali, privi di stimoli, tra una partita a basket e la lotta per scegliere le trasmissioni televisive, la stanca frequentazione della scuola, l’ancora più stanca motivazione degli insegnanti, l’evidente insipienza delle guardie. Chris è bianco e il solo che provenga da una famiglia benestante, figlio molto desiderato dopo una serie di tentativi andati a vuoto. La madre e il padre in giovinezza hanno consumato droghe ed alcool con una certa generosità, non sono il modello della genitorialità tutta d’un pezzo, che trasmetteva molti anni prima valori di probità e morigeratezza; sono piuttosto esempi di un tentativo di ricostituzione familiare dopo i fasti libertari degli anni sessanta e settanta. Con genitori non più in grado di rinsaldarsi dietro il ventaglio dell’autorevolezza, il destino del ragazzo si sgretola, i pezzi di un radicamento sociale costituiti da scuola, chiesa, palestra, cadono uno ad uno perdendo di significato intrinseco, sostituiti da altri valori: soldi, sesso, alcool, droghe, l’attesa barattata con la voglia di avere tutto e subito.
All’interno del carcere però Chris lentamente comincia a comprendere ed a sciogliere i nodi del proprio recente passato, confrontandosi con i compagni attorno a lui, con coloro che hanno il carattere per accettare sfide diverse, e con quelli che invece recano marchi di condanna irreversibile.
Ma soprattutto quel periodo di detenzione serve al padre ed al figlio per ripensare il loro rapporto; al primo per intravedere le zone oscure del proprio sistema educativo, incentrato più sulla valorizzazione della fisicità e della forza piuttosto che delle doti intellettuali, teso a coprire i misfatti invece che a sviluppare il senso di responsabilità; al secondo per intravedere l’importanza dell’amore familiare al di là delle convenzioni che soffocano l’impianto naturale degli affetti.
Tra le due figure contrapposte, deficitarie nella reciproca fiducia, la madre è l’ago della bilancia, colei che fortemente ed incondizionatamente ama il marito ed il figlio e riesce, con la forza di una religione ritrovata, a placare gli eccessi caratteriali di entrambi ed a favorirne la riconciliazione.
Ma quando Chris esce dalla prigione, sebbene sia intenzionato a rigare dritto, ad aiutare il padre nella sua ditta di pavimentazione, lo svelamento di un segreto, nascosto tra le assi di legno di una casa in vendita, ricaccerà il ragazzo dentro una spirale di violenza, dalla quale sarà difficile tirarsi fuori, limando una resistenza nuova e più consapevole.
Con una scrittura minimale e sotto tono, perfettamente controllata, Pelecanos ci dice tutto: ci racconta l’atavico contrasto generazionale, lo squallore di una provincia americana che all’operosità dei suoi abitanti contrappone la mancanza di suggestioni intellettuali e spirituali; la violenza come unica risposta alla carenza di un senso. Ma anche la forza degli affetti, la loro capacità di resistere ad ogni minaccia, la potenza della solidarietà e dell’amicizia, la voglia di cambiare i destini anche apparentemente più predeterminati. Il thriller si stempera in una più ampia denuncia sociale. La strada di casa del titolo è un percorso a ritroso irto di ostacoli e difficoltà, è un ritorno per una rinnovata partenza.