Ci parlava profondamente con la morte. Discorreva con il gonfiore delle arterie, il sangue che non pompava e il lercio sgonfiarsi delle dita nelle quali non si vedono le vene. Si credeva un angelo, l’angelo che c’ha la morte, quello con le ali a forma di clessidra. E di quelle clessidre ne faceva scure: le scuri sono come il tempo e ne sanno scandire la Parola.
Le parole di Dio erano nei suoi occhi divinatori. Le ore di cancro, le ore cancerose delle clessidre. Si riguardava le vene che erano a forma di scure. Poi bestemmiava ed inghiottiva il colpo di tosse della camera che del silenzio faceva l’inferno.
Che senso ha la forma se la sostanza è divinazione onnisciente nelle mani dell’Onnipotente?
Fuori il mandorlo s’era preso le vene nelle scanalature legnose della corazza, un posto, un luogo per rinchiudersi e dire la PAROLA.
Doveva morire da angelo o da clessidra infissa nel corpo?
Il corpo dell’uomo che è un angelo, che è una scure metallica, che è il ferro, che è il frutto del mandorlo.
Particelle, globuli, corpuscoli: nell’evidenza del microcosmo non rintracciava l’illuminazione ascetica, era intrappolato, intrappolato nella morte. Nella vita-morte.
Si chiamava Bufalino Gesualdo e aveva scritto anche dei racconti…
Amen