Prima di abbandonare la facoltà di psicologia feci in tempo a studiare la correlazione illusoria, eppure quella sera di agosto sono sicuro che la luna piena una qualche influenza malefica su di me debba averla esercitata per forza, non può essere andata diversamente.
Ero in vacanza nel Salento, e con i parenti avevamo organizzato una grigliata in spiaggia per Ferragosto. L’aria era fresca, il cielo stellato, e la luna così perfettamente tonda e luminosa da fare rabbia. E poi c’era gente dappertutto, e non ci si poteva muovere.
Alle 20.30 sedevo in disparte su un telo da mare e guardavo la punta delle mie Nike macchiate di sangue. Non c’entravano lupi mannari, vampiri o assassini in preda al potere della luna, ma più semplicemente per preparare il barbecue e la carne da arrostire mi ero tagliato un dito con il coltello e alcune gocce mi erano finite sulle scarpe. Mi imposi di non pensarci e diedi un’altra scorsa all’orologio. Poi presi la busta di patatine della San Carlo che avevo portato con me e la aprii. Toccai la lattina della Coca-Cola per verificare se fosse ancora fredda ed infine lanciai un’occhiata a mia moglie. Non sono mai stato un tipo socievole, la confusione mi irrita, e se ero lì era solo per fare piacere a lei. I nostri sguardi si toccarono per un istante e la rabbia crebbe in me di qualche livello. Lessi disprezzo e qualcosa di gelido nei suoi occhi che ero stufo di vedere. Lei non mi capiva quando mi prendevano quei momenti in cui volevo star solo, proprio non ci riusciva. Mi venne voglia di alzarmi e di rovinarle la serata con una litigata, ma non lo feci. La fame però mi passò di colpo, e allora richiusi la busta di patatine e mi sdraiai faccia all’aria. La luna era sempre sopra di me, grande e pesante, così vicina da dare l’impressione che allungando una mano la si potesse toccare. Poi qualcosa si mosse vicino a me: un nero di quelli che di giorno andavano in giro per le spiagge a vendere cianfrusaglie ai turisti stava stendendo il suo telo a fianco al mio. Lo fulminai con gli occhi, travolgendolo con tutto l’odio di cui ero capace. Lui non se ne curò, e mi sorrise mostrando una dentatura bianca e splendente come la sfera che mi galleggiava sulla testa.
“Sono Mustafà”, mi disse poggiando sul telo il suo saccone e allungando una mano nella mia direzione.
Lo ignorai atteggiando le mie labbra ad una smorfia di disgusto. Gli extracomunitari mi stavano sullo stomaco, ci rubavano il lavoro, violentavano le nostre donne, non pagavano le tasse e si fottevano 25 euro al giorno dallo stato. Erano brutta gente, tutti.
Tornai a stendermi e a fissare la luna. Poi una leggera puzza mi raggiunse, e la attribuii al nero, anche se forse c’era già prima del suo arrivo. A quel punto iniziai a valutare l’ipotesi di cambiare posto. Stavo proprio cercando con lo sguardo una zona più tranquilla, quando un bambino in lacrime inciampò tra i miei piedi. Quel goffo animaletto col muco al naso frignava e gridava, ma non mi fece la minima tenerezza: negri e bambini per me erano quasi allo stesso livello. Non provai nemmeno ad aiutarlo, lo scarafone, e rimasi immobile mentre il nero al contrario balzava in piedi per soccorrerlo.
“Chiedi scusa al signore”, disse la mamma del piccolo rompiscatole facendosi largo tra la gente. “Smettila di fare i capricci”.
Guardai con sdegno la grassa signora e accettai con un ghigno le sue scuse. Non sapevo perché il bambino piangesse, ma il nero dopo averlo aiutato a rialzarsi gli regalò un giocattolo per interromperne i lamenti.
La mamma del piccolo, dopo un breve scambio di battute con Mustafà, gli offrì del danaro, che quello scemo rifiutò.
“Fatto mio regalo per piccolo amico”, disse sorridendo il nero come se quel gesto lo avesse reso l’uomo più felice della terra. “Quando tu incontra di nuovo Mustafà compra qualcosa da lui, va bene?”.
La signora acconsentì e dopo essersi di nuovo scusata con me se ne andò.
Mi lasciai andare sul telo senza dire nulla e ripresi a guardare la luna. Probabilmente ero l’unico in tutto il Salento così completamente assorto da quella palla luminosa e ancora più probabilmente essa non aveva altri su cui concentrare le sue influenze: era troppa la rabbia che cresceva in me. Anche la brezza marina mi dava ai nervi e il desiderio di sparire era sempre più una necessità. Preso da quegli strani pensieri, quasi senza accorgermene scivolai in un sonno profondo che durò qualche decina di minuti. Al risveglio vidi la mia busta di patatine completamente aperta e Mustafà che spiluccava con gusto e che beveva ad una lattina di Coca-Cola.
“Negro di merda”, sussurrai guardandolo con furia omicida.
Lui sorrise come se il mio sguardo non lo avesse nemmeno lambito e mi propose di mangiare con lui le mie patatine. Le mie patatine!
“Vaffanculo”, gli dissi.
Mustafà cambiò espressione e si guardò intorno. “Perché tu arrabbiato con me? Bella serata. Bello mare. Vacanza. Cosa vuoi di più?”.
Alzai gli occhi al cielo e sentii una forte energia entrare in me attraverso un raggio di luna. Poi tornai a fissare il nero. “Voglio le mie patatine”, sbraitai.
Mustafà forzò un sorriso, prese un’altra lattina di Coca-Cola e me la offrì indicando la busta di San Carlo aperta: “Mangia con me, amico. Passiamo bella serata. Dimentica problemi”.
Persi il lume della ragione, altro che dimentica problemi! Così iniziai ad insultare Mustafà e a gettare la sua roba in aria. Attirai l’attenzione di tutta la spiaggia mettendo in evidenza la presenza di un negroladrodimerda. Ovviamente la gente si schierò dalla mia parte. Mustafà protestò, disse che ero un bugiardo, che ero cattivo, ma alla fine fu costretto a raccattare la sua roba.
Spiegai di nuovo cosa era accaduto ad un amico, e poi mentre il nero raccoglieva il sacco, mia moglie mi si avvicinò: aveva ascoltato anche lei. Mi toccò una spalla e in modo che solo io potessi sentirla, mi parlò ad un orecchio: “Le patatine le ho prese io mentre dormivi. E pure la Coca-Cola. Ma che cazzo hai fatto?”.
Mi sentii gelare il sangue, quel nero non aveva fatto nulla e quando mi ci ero avvicinato non puzzava neppure. Mustafà prese il sacco in spalla e mentre camminava si voltò per guardarmi. Poi scosse il capo e si riavviò verso la strada statale lungo la quale erano parcheggiate le auto dei natanti. Avrei potuto fermarlo, avrei potuto chiedergli di restare e fargli le mie scuse, ma non potevo ammettere il mio errore e fare una figuraccia davanti a tutti. Mi dissi che per farmi perdonare anche io come la madre del bambino che mi era finito tra i piedi avrei comprato un oggetto da Mustafà la prossima volta che lo avrei visto. In ogni caso, perdono o non perdono, se il nero se ne fosse stato nel suo paese tutto quello non sarebbe successo. Cercai la luna in cielo e la trovai. Era sempre lì, ed era dalla mia parte. Aveva visto, ed approvava. Io lo sapevo, ed allora mi convinsi che lasciare andar via Mustafà fosse la cosa migliore da fare e rimasi a guardarlo mentre si allontanava. Quando fui sicuro che non sarebbe tornato indietro, mi girai, e trovai lo sguardo impietoso di mia moglie ad accogliermi.
“Fai schifo”, mi disse.
Volevo mandare a quel paese anche lei, ma prima che potessi farlo sentimmo lo stridere delle ruote sulla strada e un tonfo sordo.
Ci fu un attimo di surreale attesa, poi la gente più vicina alla statale corse in direzione del rumore e dopo un attimo di esitazione lo feci anche io. Era come se mi fossi risvegliato da un incubo, il cuore mi scoppiava in petto. Corsi più veloce che potei, superando persone su persone e facendomi largo persino con le mani. Fui tra i primi ad affacciarmi tra le auto parcheggiate lungo il guardrail e a vedere una lunga serie di oggetti sparsi sulla carreggiata. Poco più avanti una sagoma scura era stesa sull’asfalto e un cucciolo di cane gli guaiva vicino.
L’uomo alla guida dell’auto che aveva travolto Mustafà uscì col busto dal finestrino, poi ripartì sgommando, terrorizzato forse da quello che avremmo potuto fargli. C’era una signora al mio fianco che tra i singhiozzi si rivolse al marito e gli disse: “C’era un cane in mezzo alla strada e quel signore voleva farlo attraversare”. Il signore era Mustafà e la donna lo guardava sconvolta. Indicò con un dito l’auto ferma nella nostra corsia e il cui guidatore era come paralizzato, e continuò: “Quella macchina si è fermata, ma l’altra correva e nel superarla ha travolto il signore mentre si abbassava a raccogliere il cane”.
Il discorso era confuso, ma la dinamica dell’incidente mi fu subito chiara. Mustafà aveva visto un cucciolo in mezzo alla strada. Una prima macchina si era fermata per permettergli di aiutare il cane, mentre quella del pirata, a folle velocità, l’aveva superata.
Come in una bolla d’aria, sopravanzai tutti e vidi Mustafà con lo sguardo fermo che fissava il nulla. Aveva uno squarcio a livello della tempia e il cervello che ne veniva fuori insieme al sangue. Aveva anche altre ferite sul corpo e il cagnolino non riusciva a leccarle tutte.
Caddi in ginocchio. Non serviva essere un medico per capire che per Mustafà non c’era nulla da fare, e che né io né la mamma del bambino finitomi tra i piedi potevamo più comprare qualcosa da lui. Saremmo rimasti in debito con quell’uomo per l’eternità.
Come il rintocco di campane che suonano a morte, mi rimbombarono nella testa le parole di Shakespeare: è tutta colpa della luna, quando si avvicina troppo alla terra fa impazzire tutti. Questa frase dapprima gravosa come un macigno ben presto si tramutò nel miraggio di una rosa che sboccia in mezzo al deserto. Sì, doveva essere proprio così. Non era colpa mia se mi ero comportato a quella maniera, se avevo agito da pazzo. E anche per me che non credevo nei licantropi e che trovavo solamente casuale il fatto che nelle notti di luna piena si registrassero più omicidi che nelle altre, fu facile convincermi che in quella notte fui mosso da qualche forza misteriosa. Purtroppo però la verità è un’altra: quando si agisce in maniera vergognosa, è troppo comodo attribuire ad eventi esterni le responsabilità del proprio comportamento. Ma fu esattamente quello che feci.
Lasciai andare le braccia lungo il corpo e sollevai di un niente il capo. Non avevo capito nulla della vita. Nulla. E così, con le lacrime agli occhi e nella tenue luce della luna, constatai che il colore del sangue di Mustafà era identico al mio.