Nello scirocco di fiele bollente, tra le spine dei fichi d’india, didentro le unzioni stoppose del sudore che inzuppa le pelli, la litania estenuante degli amori bufaliniani si squarcia e divora la considerazione del sentimento nella maciullata discussione a se. Maria Venera. La notte d’argento sottile ed il pianoforte pestato dalle sue mani, il balcone fresco di cosce rase da zaffate ventilate che sputazzano il cuore di carciofo di Modica. La briscola al passaggio dello sticchio, la giravolta del capo frizzante di gassosa a pochi centimetri, la camera d’albergo ed il mare dove Cecilia fu battezzata dall’ingordigia della vogghia vudduta della carne siciliana. I piccoli ventilatori che come ventagli discostavano i capiddi della femmina Vergine di Sangue spremuto dalla mano calda del tocco. Incerate dei caldarrostai in estate. L’amore con il frinire a mò di vagone fantasimato. Gesualdo ed i suoi amori non ricambiati, idilliaci nella negazione, potenti nell’ultimazione del processo all’anima per la conquista. Maria Venera entrata nel buio.
La Sicilia che non canusci la morte della carnazza tremolante d’amuri.
Bufalino nell’universo di platani, sotto un eucalipto, che parla per ubriachezza e malinconia nell’attacco della nostalgia.
Amen, mia Sicilia.