La cosa più difficile fu mettere via il costume.
Fatto quello, agosto era archiviato.
L’estate è proprio finita, si disse.
Ma era finita anche la lotta contro lo scirocco, le zanzare, le calorie di granite e gelati.
Niente più sensi di colpa per i giorni lasciati cadere come granelli di sabbia quando la clessidra dell’estate ne contiene così pochi, sudati e brevi per giunta.
Qualcuno dovrà pur studiarla, la depressione post aestatem, la summer blues.
Cosa avrebbe trattenuto di un luglio, di un agosto fatti di passeggiate, concerti, processioni di santi in modalità estiva?
L’attesa di un amore tra i gelsomini impazziti, di una tregua alle ansie che ci attendono nella trincea della quotidianità interrotta da un telo, un paio di zoccoli e un costume.
I tormentoni estivi sembravano già irranciditi come gli stuzzichini il giorno dopo una festa.
Per strada non aleggiava più quel sentore di scuole chiuse, negozi in ferie, promessa di tavolini e musica.
Procrastinazione del dovere. Desiderio e già nostalgia di un tempo che scorre solo per contemplare.
Agosto è un sabato del villaggio prolungato fino all’estenuazione.
Chiuse il cassetto con un gesto deciso.
Strappò dal calendario la foto di una spiaggia non meglio identificata, senza misericordia per l’ultima manciata di agosto che ticchettava ancora nella pendola della cucina, che flottava sullo schermo del pc e del cellulare.
Contemplò per un attimo una scena di vendemmia e i trenta numeri allineati come uno squadrone disciplinato e pronto ad agire.
Per radio, una sequenza di hit dedicate a questo capodanno in re minore, all’araldo dell’autunno.
In macchina c’è ancora l’ombrellone, pensò.
E forse nel babagliaio – lo temeva, lo sperò – qualche granello di sabbia sarebbe sopravvissuto alle impressioni di settembre.