Daniel Pennac è un matto. Matto come il matto di Re Lear nell’omonima tragedia di Shakespeare, matto come l’Enrico IV di pirandelliana memoria. Nessuna patologia conclamata, si tratta in realtà di una mutazione della saggezza, che abita la follia per accostare la complessità del mondo, per denunciarne i vizi usando la dissacrazione, che adotta l’irragionevole come torre di avvistamento della verità.
E grazie a questa sua follia saggia, temperata da uno humour a volte nero a volte sconsolato, altre ancora leggero e favolistico, lo scrittore e professore francese la cui fama non ha bisogno di spiegazioni, ha preso in prestito il paradosso per raccontarci una vicenda lunga ben sei libri (Il paradiso degli Orchi, La fata carabina, La prosivendola, Signor Malaussène, La passione secondo Thérèse, Ultime notizie dalla famiglia).
Nei romanzi che, a partire dagli anni ottanta, compongono il ciclo di Malaussène, lo scrittore si fa innanzitutto testimone di un luogo, rendendo un omaggio stravagante e bizzarro ad un quartiere di Parigi, Belleville, una propaggine variopinta ed estrosa di quella metropoli elegante e turistica, una zona cresciuta in mezzo agli odori forti delle diverse etnie, densa di contrasti policromi. Al centro di quel quartiere, come l’obelisco in una piazza, ci sono i Malaussène con le loro vicende surreali, le emozioni e le intemperanze, i rimedi bizzarri ai molti mali del vivere. Pennac in questo senso opera una sostituzione rispetto alle normali saghe familiari, cui molti autori ci hanno abituato (non ultimo l’attuale vincitore del premio Campiello n.d.r.). La sua non è una famiglia nel senso tradizionale del termine, bensì una “tribù”, un’accozzaglia generosa di tipi e caratteri, dove il legame principale di parentela è la “fratellanza”. Non l’autorevolezza di un padre o di una madre dunque, ma una teoria di fratelli e sorelle, che vivono all’insegna di una precaria stabilità, sotto l’ala protettrice del fratello maggiore, Benjamin. Il fatto che questi riesca a sostenere il peso di una famiglia in crescita esponenziale svolgendo l’inusuale lavoro di capro espiatorio, prima presso un grande magazzino, poi all’interno di una casa editrice, la dice lunga sul carico di responsabilità che gli grava l’anima. Benjamin è predestinato al ruolo, il “bravo figlio” che rinuncia a sfruttare la sua laurea per caricarsi dell’onere del mantenimento e dell’assistenza di una congerie di individui, oltre il cane Julius, maleodorante ed epilettico. La vittima che ha scelto consapevolmente il proprio destino, ed in virtù di questo le molte vicende che lo vedono protagonista, perennemente al centro di una serie di fatti delittuosi dei quali viene sistematicamente accusato, lo trovano in un certo qual modo “resistente”, un muro volutamente ottuso, contro cui s’infrangono le ipotesi investigative più disparate. Ma al quel muro converge tutta l’umana debolezza. Ed in questa vita da capro, che lo rende capace sul lavoro di fingersi mortificato e piangente per scoraggiare l’ira funesta dei querelanti, il dolore è un leitmotif malinconico, pur nel tono quasi farsesco del racconto, una protesta sorda, un urlo sommesso d’affetto per quella sua mamma, sempre in fuga in preda alla passione, sempre incinta di ogni amante; per i fratelli e le sorelle: Clara, che incornicia ogni realtà dentro uno scatto fotografico; Thérèse, pacata vestale col dono della divinazione; Louna, passionale come la mamma; Jérémy, dagli entusiasmi incontenibili e che dà il nome ad ogni nuovo nato; Il Piccolo, sempre in difetto di crescita, che indossa occhiali rosa e sa tinteggiare del medesimo colore anche i fatti più atroci; la piccola Verdun, che annega in un mare di lacrime.
E poi c’è la passione amorosa per Julie, incontrata al Grande Magazzino, àncora che lo salva dalle involontarie derive.
Attorno alla tribù gravita un’umanità disparata e stramba fatta di poliziotti, suore, delinquenti, medici, prostitute, travestiti, così surreale ed insieme così estremamente reale, fiorente sotto iperboli e metafore, spumeggiante di riferimenti letterari e cinematografici, col felice pensionamento di ogni giudizio moralistico, con i ruoli sovvertiti ed una appagata accettazione di fondo per ogni differenza umana, razziale o sociale, che ci rende grati in quanto perfetto esercizio di tolleranza.
Nella giostra circense della rappresentazione, che si appanna un po’ nei racconti degli ultimi due libri,Pennac si fa giocoliere della parola, nel registro eccessivo del racconto c’è forse l’ipotesi sotterranea di un progetto sociale, l’antidoto poetico al dramma delle banlieue.
Che sia un vecchio cinema in via di distruzione, o una locanda magrebina, una stazione di polizia, le desolanti costruzioni di un quartiere nato per sovrapposizioni, ogni luogo si libra leggero oltre le brutture, in questa anomala tipologia di gialli-non gialli, la poesia senza rime si spande e diventa una cornice colorata dove ogni marginalità è scelta orgogliosa e rivendicata di diversità.