I miei occhi e il cuore son venuti a patti
ed or ciascuno all’altro il suo ben riversa:
se i miei occhi son desiosi di uno sguardo,
o il cuore innamorato si distrugge di sospiri,
gli occhi allor festeggian l’effigie del mio amore
e al fantastico banchetto invitano il mio cuore;
un’altra volta gli occhi son ospiti del cuore
che a lor partecipa il suo pensier d’amore.
Così, per la tua immagine o per il mio amore,
anche se lontano sei sempre in me presente;
perché non puoi andare oltre i miei pensieri
e sempre io son con loro ed essi son con te;
o se essi dormono, in me la tua visione
desta il cuore mio a delizia sua e degli occhi.
I Sonetti di William Shakespeare sono un’opera pubblicata dall’autore inglese nel 1609. Scritta alla fine del XVI secolo, la raccolta poetica consta di 154 sonetti, tutti aventi lo stessa schema metrico. La critica ha, dopo lunghi ed enigmatici studi, diviso l’opera in due parti, la prima costituita dai primi 126 sonetti, la seconda dai restanti 28. Protagonista è l’amore, impersonato da due figure opposte, il fair youth e la dark lady.
E proprio a questa figura maschile, dannatamente bella, è dedicata la prima parte dell’opera, tra cui il sonetto 47, continuazione naturale del precedente 46. Il sonetto è stato definito dai critici il canto degli occhi e del cuore, e mai definizione più adatta: in tutti e 14 i versi infatti le parole si diramano nella mente del lettore come una melodia lenta e insofferente.
Gli occhi dell’autore fanno fatica a scindersi dal cuore, poiché questo cordone creatosi tra i due “sensi” fa sì che l’immagine e il sentimento dell’amato non si dissolvano. Può capitare che il cuore possa sentirsi stanco e desioso d’amore, e così può accadere agli occhi, vittime inconsapevoli della memoria cacciatrice.
E quando questo accade non resta che ricordare al proprio cuore l’immagine dell’oggetto d’amore e agli occhi l’amore stesso, come un grido disperato a cui rispondere nei momenti di paura.
Così non vi è lontananza che possa annientare un amore forte della propria immortalità. Quella immortalità data solo dalla consapevolezza di poter amarsi sempre, anche aldilà degli occhi e del cuore; quando i pensieri compiono lunghi viaggi e si posano nella mente dell’amato.
Il sonetto si pone a metà strada tra la dichiarazione di un amore fedele e il grido di speranza affinché questa melodia non si perda nella lontananza che separa due cuori; lì dove gli occhi non possono e il ricordo si aggrappa ad un’immagine bisognosa di vita.
Dunque la certezza, ostentata a sé e all’amato nei primi versi, si trasforma quasi in un quesito malcelato: può un semplice pensiero essere sufficiente a colmare il desiderio del cuore e degli occhi?
“così per la tua immagine o il mio amore”, recita Shakespeare, tracciando quella linea tra certezza e insicurezza. Dopotutto l’amore è così saturo dei propri sensi da poter da questi trarre la linfa vitale? O c’è bisogno di un sempre rinnovato legame per poter nutrire prima di tutto se stessi?
Eppure “anche se lontano sei sempre in me presente”.