Pirandello ha segnato con la sua opera la storia del Novecento letterario italiano. E una firma così prestigiosa, un’impronta così forte nella storia della letteratura, non può venire dal nulla o dal caso.
Luigi Pirandello, come tutti i grandi, ha lasciato qualcosa in più dei suoi romanzi, delle sue opere teatrali, delle sue poesie. Ha segnato il secolo con il suo pensiero, con una filosofia che nasce dalla riflessione sul mondo: una di quelle filosofie capaci di interpretare un’epoca, di incarnarne lo spirito.
Alla base dei capolavori di Pirandello c’è un’approfondita riflessione sui conflitti che hanno segnato l’uomo del Novecento. E la riflessione trova la sua forma concreta in un saggio che vede la pubblicazione nel 1908, ma a cui l’autore lavora già dal 1904: L’umorismo.
Il 1904 è l’anno di uscita de Il fu Mattia Pascal, considerato dalla gran parte dei critici il capolavoro della poetica pirandelliana. La contemporaneità del romanzo con il saggio non è assolutamente un caso: i due libri sono legati indissolubilmente. Il primo è invenzione letteraria consacrata dall’abilità stilistica, il secondo ne costituisce il substrato ideologico (si pensi che un’edizione del saggio fu dedicata proprio “Alla buon’anima di Mattia Pascal bibliotecario”). E se Il Fu Mattia Pascal è considerato il romanzo che racchiude in sè l’essenza del pensiero pirandelliano, il più “pirandelliano” tra i romanzi di Pirandello, allora il sillogismo è elementare, e ci consente di affermare che L’umorismo è – di fatto – la teoria di base dell’opera dello scrittore di Girgenti.
Nato sul modello de Il riso di Henri Bergson, il saggio di Pirandello ne amplia la prospettiva, affrontando in maniera cristallina la differenza – che costituisce il cuore dello scritto – tra i concetti di comico e umoristico. Il primo viene definito come “avvertimento del contrario”: il comico è cioè percezione e messa in evidenza delle sfasature della realtà e dei comportamenti, delle contraddizioni della vita. L’umorismo è invece “sentimento del contrario”: l’atteggiamento umoristico è proprio di chi, rilevando quelle stesse sfasature, scopre la sofferenza che si cela dietro di esse.
Per studiar minuziosamente un grottesco, per prolungar freddamente un’ironia, bisogna avere un sentimento continuo di tristezza e di collera
Esso nasce quindi dalla riflessione sul comico e, se quest’ultimo scatena il riso, il primo porta invece al sorriso… Un sorriso ironico, che significa distanza e vicinanza allo stesso tempo: l’umorista, spinto dalla riflessione, è di fatto portato al distacco, eppure si sente segretamente attratto e partecipe di quella condizione esistenziale, che avverte come comune.
È come se, lacerato dal contrasto tra vita e forma, ne avvertisse però l’intrinseca necessità.
L’esempio portato dallo scrittore porta in primo piano una scena elementare che vede protagonista una donna anziana vistosamente truccata. A primo impatto, essa ci porta inevitabilmente al riso, scatenato da quell’avvertimento del contrario di cui abbiamo parlato (il trucco non è, nella nostra percezione della realtà, abbinato ad un’età così avanzata: il tutto ci sembra infatti ridicolo). Ma, se ci fermiamo a riflettere, allora pensiamo a cosa si cela dietro ad un comportamento di questo tipo: il non-accettare la vecchiaia, l’esorcizzare la paura più grande del’uomo, la morte. L’umorismo ci porta ad una inaspettata vicinanza con quella vecchia tanto truccata di cui la categoria del comico ci faceva solo ridere.
Vette di straordinaria lucidità critica vengono raggiunte anche quando Pirandello affronta il tema della differenza tra ironia e umorismo, prendendo come massimi esempi letterari L’Orlando Furioso – trionfo della distaccata ironia ariostesca – e il Don Quijote, romanzo umorista che porta alla ribalta l’errata percezione della realtà da parte di un uomo che nasconde, innanzitutto, un disagio con il mondo.