Il dolore, come immagine, è sempre associato ad un taglio, una ferita da cui sgorga sangue, a un livido nero e viola, qualcosa che sia visibile e riconoscibile, che possa in un certo senso certificarne la portata. La sofferenza deve essere accompagnata da lacrime e lamenti perché possa avere peso e dignità, per essere reale. Luogo comune vuole che però le lacerazioni più difficili di cui ricucire i lembi siano quelle invisibili all’occhio nudo, e la locuzione luogo comune, a sua volta, fa riferimento o a cosa trita, già sentita, o a verità accertata, ripetuta nel tempo, realtà.
Questi gli ingredienti e i presupposti di “Miradar”, il romanzo d’esordio di Ilaria Mavilla, che con poche pagine è riuscita a raccontare qualcosa di vero attraverso la finzione, a mettere su carta vari tipi di desolazione e degrado, ma anche di scelta e speranza, conservando intatta la dignità dei protagonisti. Feriti e con l’anima spezzata incedono nella vita con lo sguardo rivolto al pavimento, eppure restano fieri.
L’insegna al neon del “Miradar” è vecchia, stoica continua a funzionare, sebbene non con tutte le lettere nel medesimo momento. In quello che un tempo era un albergo con una sala da ballo le vite di alcune persone si intrecciano, si scontrano oppure solo si sfiorano. È Margherita la prima voce di questo coro, studentessa, figlia, fidanzata inconcludente è sua una delle frasi più intense del romanzo: “.. solo che non ero fatta per le cose che durano perché io non duravo mai quanto le cose”. Questo senso di precarietà accompagna non solo lei, che danza sotto un crocifisso per gli avventori vogliosi, interpretando uno dei ladroni con Barbara. Barbara è rumena, ha un figlio, è in fuga. A differenza di Margherita balla perché deve. Le guarda e le indirizza Sugar, proprietario decadente di un locale fatiscente, quel Miradar che in passato aveva visto tutte le sue luci accese emulare quelle di Las Vegas. Solo, infelice, rifugge l’immagine ingombrante della madre morta cercando di annegare i ricordi nell’alcol, con l’unico conforto di Marilù, la prostituta amica che vive come lui nell’albergo. L’ultima puttana dell’albergo interpreta per un camionista, Pepi, il ruolo della di lui moglie morta, riuscendo poi a rimettere in ordine la vita di quell’uomo gentile bloccato nella recita di un’esistenza finta. Infine Clarissa, di cui è innamorato Sugar, picchiata dal compagno, capace di riscattarsi rubando un sogno altrui.
Ogni capitolo ha di volta in volta il nome di uno dei protagonisti che si avvicendano come in una danza, lasciandosi le mani piano, offrendo molti punti di vista, raccontando poche ore da ogni possibile visuale, dalla più tragica alla più carica di promesse. Ilaria Mavilla, vincitrice con questa sua opera prima del concorso ilmioesordio 2011, ha corso un grosso rischio. Tanti personaggi con le loro vite condensate in poco spazio, avrebbero potuto finire per colmare la storia al punto da non lasciarle respiro: non è accaduto.
Le poche pagine m’hanno invitata a vedere una messinscena; senza neanche rendermene conto mi sono ritrovata a ballare, volteggiando tra miserie altrui, desiderosa di conoscere l’epilogo delle vicende dei tanti personaggi e comprimari che si cedevano il turno per invitarmi a danzare o per ascoltare il loro canto.
Tra tutte, la voce dell’autrice che con uno stile asciutto e pulito ha compiuto il lavoro d’un direttore d’orchestra, attento che non ci fossero note stonate.
Il Miradar non è un bel posto da frequentare, ma di certo è un gran bello spettacolo cui assistere.