Siamo agli albori del I secolo dopo la nascita di Cristo. Insieme alle Metamorfosi, Publio Ovidio Nasone compone i Fasti, un calendario in versi, poema di argomento antiquario ed eziologico scritto in distici elegiaci (il verso melodioso, fluente e cantabile composto da un esametro e da un pentametro).
Fasti dies era il sintagma con il quale si indicavano gli antichi calendari dei pontefici, sui quali era scandita di fatto la vita pubblica di Roma antica. Nel proemio al libro I, l’autore proclama esplicitamente il suo scopo e la materia del trattato: il poeta canterà le festività dell’anno romano (tempora), ma anche le loro origini (causae). Il poema viaggia dunque su due binari artistici che si intersecano: da un lato un argomento prettamente civile, tipico del mondo romano, nel quale spesso l’arte si piega a giochi della politica, o quantomeno le porge il fianco (esemplare il caso del cambio di dedica dell’opera, dapprima indirizzata ad Ottaviano, poi – dopo la sua morte – a Germanico, evidentemente nella speranza che il giovane princeps facesse qualcos di concreto per il ritono a Roma dell’esiliato Ovidio); dall’altro lo spirito ellenistico, il gusto alessandrino della poesia eziologica, che si diletta – tra storie, miti e digressioni fantastiche – nella narrazione dei fatti. È quella poesia a cui piace raccontare semplicemente se stessa, spinta dalla forza della curiositas, di cui i Fasti costituiscono uno dei più grandi esempi letterari dell’antichità.
Ispirato ad una serie di modelli – gli Aitia di Callimaco, le elegie di Properzio, i Fenomeni di Arato, ma anche l’Eneide e naturalmente gli antichi annales – il poema di Ovidio prevedeva un progetto di dodici libri, tanti quanti i mesi dell’anno; l’esilio del poeta a Tomi interrompe di fatto la stesura dell’opera, che si ferma ai primi sei libri (comprendendo dunque i mesi da gennaio a giugno).
Ovidio tenta – e ci riesce con grande fortuna – di ravvivare la struttura del poema, che di per sè sarebbe molto arida: l’enumerazione delle festività romane diviene il pretesto per inserire episodi narrativi di argomento sia storico che mitico, invocazioni agli dèi, descrizioni di luoghi, apostrofi al lettore: leggende, riti e personaggi della mitologia e del folklore popolano il poema con episodi curiosi, a tratti comici – come l’assalto mancato di Priapo – altre volte con ironia e “sfrontatezza” letteraria, come nella descrizione del dio Marte, di cui il poeta romano ci restituisce un’anomala immagine non di guerriero, bensì di giovane innamorato.
Nonostante le affermazioni di Ovidio, che nell’opera si rivolge ad un tratto al lettore meravigliandosi egli stesso del nuovo iter di letteratura percorso (non amori e frivolezze, ma sacra signataque tempora Fastis, ossia “le feste sacre e le date segnate nei Fasti”), rimane evidente l’impronta del poeta di Sulmona: un’impronta che non può celare il piacere dello scrivere, il tono ironico e distaccato che contraddistingue la sua produzione e la ricerca onnipresente del colpo ad effetto, della parola in grado di divertire con leggerezza e stupire con arguzia.