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[…]L’amore guardò in basso, vide odio e disse:
“Là voglio andare”.Alfred E. Housmann
Le luci sono spente, nel mondo le distanze hanno i nomi di Andromeda, Pegaso, Cassiopea; la solitudine è nelle vene e non riguarda più la comparsa della vita in senso generale, è un fattore intimo, individuale, congenito. Tutto si interrompe, ne ha l’obbligo, ma mi sento ancora respirare. “Ovunque” è una parola che nasce, non una possibilità. Sogno di sognare e mi accorgo di mimare con le labbra, in modo distratto, un sogno che mai sarà un vero sogno. Il tatto è sempre un cammino lungo qualcosa: il lenzuolo conduce in un viale sordo. Non c’è sonno per i dannati. I pre-destinati ai tormenti del sistema lunare. Mi volto, come si volterebbe qualsiasi uomo, forse più attento alle circostanze, con gesti omologati al contegno del silenzio, finalizzati al raggiungimento di un’inutile posizione che si perderà nella memoria di una più considerevole e vasta esistenza.
Non so più meravigliarmi dei miei occhi. Quelli che da anni osservo riflessi sul vetro della finestra quando assumo questa posizione. Tutto il peso del corpo grava sul mio fianco sinistro. La mia sagoma, e tutto ciò che segue immobile, sono ripetuti per ogni volta che mi sono voltato solo in questa stanza.
Tempo fa ero ancora capace di meravigliarmi. Dei colori della tenda, della forma del lampadario, della luce e delle ombre, del mio nome. Dei miei occhi, così simili a quelli di mia madre. Ho sempre chiesto a quel riflesso se forme somatiche simili corrispondessero ad una similitudine di alcuni frammenti del carattere. Mia madre. La vidi realmente solo una volta. Aveva negli occhi, attraverso quella patina lucida che li rendeva costantemente traballanti sul filo della tristezza, un vuoto impossibile da alleviare, un vuoto avvolto, intrecciato ai giorni passati. Non è vero ciò che dice la gente, le cose irreversibili esistono e sono tutte legate a ciò che non si può ripercorrere, il passato. In mia madre questa consapevolezza formava quel grado accettabile di odio che ogni essere umano è in grado di nascondere attraverso la simulazione di una condotta di vita comunemente definita normale. Mia madre amava. Amava con i gesti e gli atteggiamenti che soffocano. Amava tenendoci legati al cordone ombelicale. E stringeva, stringeva facendo male ogni volta che un vento buono o cattivo minacciava di portarci lontani da lei. Mia madre ci rimboccava le coperte. Metodica, incapace di uscire dal recinto delle regole che lei stessa aveva stabilito per paura di sbagliare. E per paura di sbagliare, lei sbagliava. Un giorno io la vidi per la prima volta, la vidi attraverso gli occhi. Vidi il suo amore sbagliato, la vidi attraverso quella patina lucida che sfigurava l’intero suo viso. La vidi, mentre ci amava, nel solito gesto. E vidi anche il suo gesto, compulsivo, attento , meticoloso, patologico. La vidi mentre copriva il mio petto con le lenzuola e mi accarezzava la fronte osservandola con preoccupazione, come se non accettasse che fosse altro oltre le sue dita. Così amava mia madre. Coi gesti sofferti e autolesionistici di una penitenza interiore e di una privazione identica alla cieca passione di Cristo. Identica alla colorazione di ogni abisso umano. Identica all’odio. Mia madre era nel giusto, era buona quando voleva che mio padre, il suo ex marito, fosse per noi una presenza, ma non gli permetteva di essere presente. Non gli permetteva di essere un padre. Era gelosa, ma non lo ammetteva a se stessa. L’umano tormento è sempre una contraddizione umanamente inaccettabile di cui si conosce appena l’odore, mai la forma. Mia madre amava piangendo. Mai davanti a noi. Ma io sapevo quando lo faceva, la vedevo stringere i denti e quella patina lucida via via si faceva più spessa, fino a nasconderle il colore delle pupille, fino a costringerla a fuggire da se stessa, nella sua stanza. Quando mio padre abitava insieme a noi mia madre si rifugiava nelle parole. Le urlava impedendo alla stanchezza che traspariva dalla sua voce di diventare una debolezza tangibile. E tutto il detto e il non detto formava una pellicola protettiva in cui proteggersi, proteggerci. Mia madre odiava. E me ne accorsi solo una volta, poiché la guardai realmente solo una volta, un giorno, mentre copriva il mio petto con le coperte. Mia madre trovò come tutti un capro espiatorio, una via d’uscita nel labirinto della follia, la trovò nella figura di mio padre. L’odio primordiale, materno, solo materno. L’odio che chiama se stesso col nome dell’Amore. L’odio che cresce schiacciato dal rigore dei gesti d’amore. L’odio. Quando sentii mio padre urlare disperato i nostri nomi mentre veniva trascinato dalle forze dell’ordine chiamate da mia madre. L’odio che non conosce l’umana pietà e che cancella il sottile velo che ci ha resi per un caso dotati di ragione.
Mi rimboccava le coperte mia madre, mentre uccideva mio padre togliendogli la possibilità di vederci e dicendoci “vostro padre vi ama”, vostro padre vi ama. Mia madre aveva ben definito la figura di Peter, mio padre, attraverso le deformazioni di un cristallo, di un gioco di trasparenze e riflessi adiacenti o paralleli. L’aveva definito attraverso la reiterazione di un pensiero che lo inchiodava all’appartenenza di un sesso opposto al suo. Noi invece non eravamo maschi, né eravamo femmine. Noi eravamo i suoi figli. Noi eravamo suoi. Noi eravamo angeli.Mio padre, Peter, il nove gennaio del duemilatre, il venticinquesimo giorno lontano da noi, vessato dal peso della solitudine, si uccise lasciandosi cadere nel vuoto.
Mia madre uccise mio fratello Jonny due giorni prima, il giorno stesso in cui io la vidi realmente per la prima volta. Lo fece dopo avermi rimboccato le coperte.
La bilancia che decide le sorti degli individui, nello stesso gesto carico d’amore o di odio, cadde dalla parte degli angeli.
Noi siamo angeli.
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