Uno
Non sapevo cosa fosse. Tutto di lui mi ubriacava: la voce soprattutto, morbida e ricca di armonici densi, come fruttati. Le sue mani, con il disegno delle vene azzurrine che mi ricordava le arrampicate arricciolate dei tralci sul pergolato di mio nonno. I baci, che mi lasciavano in bocca la sete d’estate che si spegneva con acqua e limone. Lui invece non mi bastava mai.
Non capiva niente di annate, dei parassiti che si mangiavano le viti. Non volle imparare neanche i nomi delle vecchie botti che da sempre accoglievano il sangue della terra, come lo chiamava mio nonno. Voleva portarmi via da quel mondo ritmato da potatura e raccolta, profumato di mosto e zolfo. E io glielo lasciai fare.
Fino a quando iniziai a deperire. Ero come una pianta sradicata, una vite trapiantata in un terreno inospitale, ostile.
Fu lui a lasciarmi.
Due
Sala d’attesa. Attesa di chi? Di che cosa? Di un volo di un esame di una visita. Cosa aspettiamo? Chi ci aspettiamo? Io non aspettavo nessuno. Non mi aspettavo niente.
Buste gialle rigirate fra le mani o composte in shopper di carta che hanno contenuto regali o acquisti preziosi in tempi migliori. Borsoni di palestre, borsoni omaggio reliquia di viaggi organizzati, zaini in cui tutto si mette e tutto si scorda.
Attesa di un letto. Di un armadio per liberarsi di quei pesi trascinati per portabagagli e bus e taxi.
Sguardi fissi sulla reception. Sguardi smarriti che cercano i distributori, che tornano all’ingresso di un mondo che esclude quello di fuori, cento metri ma lontano anni luce.
Scricchiola la sedia e il mio vicino sobbalza. Scatti come se un tuo movimento tardivo ti inchiodasse a quella sedia, ti restituisse a un purgatorio.
Il tuo nome su una bocca estranea violato, esposto così alla delusione di tutti quelli che non sei tu, agli occhi che ti trapassano – sei passato avanti per sbaglio? Sei raccomandato? Un altro nome e tu diventi una macchia sul marmo leccato stamattina dagli scopettoni e già opaco.
Infine, mi chiamarono.
Ero in ospedale da più di dieci giorni, ormai. Non sapevo neanche più che giorno fosse. La cappella era piena. Per la Messa. Doveva essere domenica allora. Fuori, un autunno glorioso indorava le foglie del parco del “Garibaldi”. Mi chiesi che ne era stato della vigna di nonno. Che ne era stato di me. Ero vitigno mangiato dalla fillossera, ero… respinsi al mittente le lacrime. I medici mi avevano incoraggiata, rifiorirà, vedrà… tutti questi futuri mi sembravano remoti come il passato che avevo creduto – creduto – felice. Entrai nella cappella. Tutti si voltarono, ma tornarono quasi immediatamente a posare lo sguardo sul mistero che avveniva tra le mani – senza le stigmate di chi lavora la terra ma rosate e morbide a offrire “il frutto della terra e il lavoro dell’uomo” – di un sacerdote anziano e malfermo, poggiato all’altare e come stretto attorno ad un calice dorato. Cosa stava dicendo adesso? “Benedetto sei tu, Signore, dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo vino, frutto della vite e del lavoro dell’uomo, lo presentiamo a te perché diventi per noi bevanda di salvezza…”. Stavolta non riuscii a ricacciare le lacrime. Vite. Lavoro dell’uomo. Bevanda… Salvezza. Riuscivo a vederle, quelle parole. Mi s’incisero dentro, come se qualcuno le avesse scritte su di me con punteruolo e inchiostro rosso. Vino. Piansi. Silenziosamente. Ininterrottamente. A lungo. Quando smisi, la cappella era vuota.
Ho ricomprato la vigna del nonno. Ho contattato un enologo, un caro amico di nonno Peppino e di mio padre. Ora un caro amico mio. Produco un moscato buonissimo, poche bottiglie l’anno, ma ha vinto tanti premi. Dalla vigna del nonno nasce anche il “Sangue di Dio”, un rosso forte e prezioso. Quello che riempie i calici del Carmelo. Continuerò a berlo anche da queste grate, dopo i voti perpetui.
Suor Concetta P.