A Torino non ho ascoltato la voce di Dio e neppure quella di Satana. Non ho visto la Sindone, non mi hanno sviata i tanti segni magici disseminati in città. Ho preferito confondermi in un vortice di immagini e scalare la Mole in ascensore al Museo del Cinema. Dall’alto, si vede benissimo che dietro l’aria così composta e borghese, ci sono le grandi migrazioni e le case popolari che papà mi raccontava e quelle architetture grigie e crema, squadrate, eleganti persino se viste da così lontano, riservate a chi è nato qui da generazioni. Neppure il grande stadio ho voluto vedere, dentro di me resto una ragazza che ha sangue del Sud Italia, e certe sirene di grandi scudetti e coppe lucenti non mi incantano: a me piacciono le piccole storie, le piccole squadre, le piccole strade. E a Torino ce ne sono tante. Basta fermare una delle ultime prostitute, una signora di mezza età che di primo pomeriggio in una delle tante traverse che incrocia Viale Marconi ferma possibili clienti con un sorriso e un invito discreto. A Torino fanno il gelato all’azoto liquido, e dolci e piatti indimenticabili, ma quello che davverò mi porterò via in valigia da Porta Nuova è il contrasto, un senso di incontro e scontro tra il sole in Piazza Castello e i portici in ombra di Via Roma, la gabbia di Piazza C.L.N. e il fascino delle chiese gemelle, dove persino Dio divide i poveri dai ricchi. Come le sue strade, come le sue vite, Torino mi appare divisa tra buoni e cattivi, lavoratori e ladri, migranti e cittadini, tram e automobili, granata e bianconeri, colline e cemento. Eppure, tutte queste voci diverse, qualcuno le ha messe insieme, provocando una qualche sinfonia, che su spartito ha la letteratura, lo smog, e un grande fiume in secca.