Sull’Appia Antica, ogni pomeriggio, incontravo un anziano signore. Andavo lì a correre e con l’arrivo della primavera aumentavo la frequenza delle mie sgambate. Ciò mi provocava una tale sensazione di benessere che difficilmente saprei spiegarne la reale provenienza: se mi si chiedesse di dire con chiarezza cosa mi attirasse lì, se più il tenermi in allenamento o il perdermi nell’aura del luogo, non saprei che rispondere.
A ogni modo, incrociavo questo vecchietto molto magro, che infilava uno dietro l’altro piccoli passi. L’anacronistico berrettino di lino a scacchi rossi e blu che indossava gli conferiva un non so che di buffo. Il dondolio delle mani nodose, che sembravano attaccate agli avambracci da un filo sottile, ritmava la camminata regolarmente irregolare e tutta la sua figura trasmetteva un senso di dolcissima instabilità. Ogni giorno procedeva affannosamente ma senza sosta, e curiosamente sempre in direzione opposta alla mia.
Un pomeriggio notai che aveva il passo più affaticato del solito; quando gli fui vicino accennai un saluto, che stranamente non contraccambiò. Gli passai di fianco seguendolo con la coda dell’occhio e, non appena lo sorpassai, rallentai e mi girai verso di lui: in quel momento, dopo aver inciampato su una delle tante disconnessioni tra vecchia pavimentazione e terra battuta, barcollò e cadde su un fianco. Mi precipitai da lui; il berretto giaceva a terra e non conservava più nulla di buffo. La parte del suo viso emaciato venuta a contatto con il suolo era coperta di polvere; mi bagnai le mani a una fontanella e gliela sciacquai.
Che stupido! sussurrò, mentre lo aiutavo a rimettersi in piedi. Sembrava si prodigasse per non apparire malconcio ma zoppicava e roteava un polso in senso orario. Visto che di andare all’ospedale non ne voleva sapere, riuscii almeno a portarlo da un amico medico, che gli disinfettò le abrasioni e mi rassicurò sul suo stato generale. In auto, riaccompagnandolo verso casa, persi il conto dei ringraziamenti. Più di tutto, però, mi sollevò il constatare che il tremore dato dall’agitazione era sparito dalle sue mani: le teneva poggiate compostamente sulle gambe. Prima di scendere volle infine presentarsi, allora si tolse il berretto in una specie d’inchino, mi diede la mano e mi disse nome e cognome. Poi si congedò cordialmente.
Non lo incontrai più.
Settimane dopo, mentre mi ritrovavo a fissare come un ebete l’homepage di Google, mi tornò in mente. Più per riempire un momento di noia che altro, digitai quel nome e quel cognome, poi cliccai pigramente su cerca. Fu lì che rischiai di strozzarmi con la birra che pigramente sorseggiavo: il vecchio c’era e come. Aprii il primo link disponibile: vi era la scannerizzazione di un ormai datato articolo d’un quotidiano, il quale riportava le vicende giudiziarie di un efferato omicida, con tanto di foto. Non avevo dubbi: nelle immagini, anche se molto giovane, riconoscevo il vecchio dell’Appia Antica. Controllai altri link, stesse sconcertanti rivelazioni. Provai un senso di nausea. In preda a intensi sentimenti contrastanti, quella notte dormii poco e male, tormentato da una domanda: se avessi saputo, l’avrei aiutato?