Cimitero di Rouen, 9 maggio 1880. Il tempo quel giorno non doveva essere dei migliori, mentre la bara scendeva calata lentamente nel suo sepolcro di terra. Pochi gli amici, niente scenate. Forse una o due lacrime, cadute silenziosamente sulla guancia di qualche gentildonna sotto il via vai di grosse nuvole grigie sospinte dal vento. Senza fare rumore. Un uomo osserva la scena tenendosi in disparte. Alto, ma non troppo. Baffi curati e cappello nero calcato su una folta zazzera. Avvenente, ma di un fascino controverso, che filtra nell’espressione cupa dello sguardo che tiene basso.
Me li immagino così, al momento del loro ultimo addio, Flaubert e Maupassant, il maestro e l’allievo, il precettore e il discepolo, il padre e il figlio. Legati visceralmente l’uno all’altro non dall’amore, ma dal peso condiviso di una sofferenza che spesso accomuna gli eletti. Gustave Flaubert e Guy de Maupassant. Figli di un mondo in crisi, che dopo l’exploit romantico si avvia lentamente verso la decadenza, la depravazione dei valori, lo sfilacciamento delle tradizioni che fino ad allora l’avevano tenuto in piedi, Flaubert e Maupassant, seppure con vent’anni di distanza, sono accomunati da quella capacità acutissima di osservazione che sempre contraddistingue gli scrittori. Entrambi segnati da infelici circostanze (l’amore non corrisposto che per tutta la vita tormenterà Flaubert e il divorzio dei genitori seguito da una devastante esperienza di guerra per Maupassant), entrambi delicati di nervi (Flaubert sarà costretto a ritirarsi a vita privata per combattere l’esaurimento nervoso, mentre Maupassant, tormentato dalla sifilide che infine lo ucciderà tenterà il suicidio prima di essere internato nel manicomio di Passy), entrambi colpiti da una morte precoce, Flaubert e Maupassant hanno in comune un pessimismo ancestrale che gli deriva proprio da quella capacità di guardare al mondo con disincanto. Gli scrittori sono specchio della società, si dice. E l’immagine riflessa che emerge dagli scritti dei due autori è quella di una natura maligna, di un mondo perverso e di un’esistenza insensata, piccolo-borghese, fondata su valori falsi e gioie precarie, soddisfazioni becere e emozioni in saldo che durano il tempo di un attimo, e che nemmeno vale la pena rincorrere, come si affannano a fare Madame Bovary o Georges Duroy (Bel Ami). Mentre dietro l’angolo si annida in agguato la depressione, il senso di inconsistenza, la noia mortale di un’esistenza vacante, privata di significati e, in ultima analisi effimera.
È uno schizzo interessantissimo della belle époque quello che viene fuori dalle loro opere. Quadro peraltro non dissimile da quello della società moderna, ugualmente allo sbaraglio, ugualmente priva di ottimismo. Circostanza che rende la (ri)lettura del Naturalismo estremo dei due autori alquanto attuale, quasi profetica. E se fu Flaubert a insegnare a Maupassant a osservare il mondo e le esistenze mediocri dei falliti e degli sconfitti, l’allievo, come sempre accade, superò il maestro, tratteggiando nelle sue famose novelle ritratti caricaturali e sprezzanti della società parigina, ormai del tutto privi di quella vena di compassione per i frustrati, condannati a una vita meschina, che aveva invece caratterizzato lo stile di Flaubert. La pietà che aveva animato l’opera di Flaubert non appartiene più al mondo di Maupassant. Se il lettore riesce a compatire la fine di Madame Bovary, nessun sentimento compassionevole lo anima nei confronti di Georges Duroy, se non un sottile, ironico disprezzo. Un nichilismo crudo, senza filtri, davanti al quale nessuna consolazione è possibile. E la morte, seppur temuta, si rivela l’unica, estrema via di salvezza dalla follia.