Mi voleva, Venezia, e non certo per la lama bianca del Ponte dei Sospiri sospeso sull’acqua, o per il vociare della gente al mercato oltre il Ponte di Rialto. Il caldo umido e opprimente la fa assomigliare ad Atlanta, ma il contrasto tra i sottoportici scuri di santi mai nati e gli slarghi regalati al cielo azzurro è unico al mondo. Lo dirò ai miei amici di Venice, che pensano basti mettere canali e gondole per trasportare la laguna in Florida. Un museo continuo e aperto, questa città di palafitte e motoscafi rossi dei pompieri, zattere per l’immondizia e palazzi di nobili diventati pinacoteche. Venezia non è la sua cartolina, nel bellini preso fuori all’Harry’s Bar o nelle scene di Sergio Leone girate in un hotel del Lido. Venezia, per me, da oggi in avanti, è un sole disegnato su un muro, vicino Santa Maria a Formosa. La Sole se ne è andata, tanto era bella, è scritto, e io capisco che quei raggi erano una volta una ragazza. Me lo rivela Roberto, che di giorno studia giapponese e di notte gira per Strade Nuove con gli anarchici. Soledad era una di loro, e lui, che nel gruppo è Marcos, l’amava. Una morte di Stato, una delle tante, racconta. Non capisco. Marcos mi guarda. Lo bacio, per salvarlo alla sua oscurità, e per un attimo tutti i canali sembrano arsi, l’acqua salmastra evaporata, insieme ai turisti cinesi e allo splendore appannato del Palazzo Ducale. Persino l’oro di San Marco e il rintocco della Torre dei Mori sono memoria stinta, scolorita da un Sole Nero, il nostro. Non cercate più Rachel, perchè da oggi io sono Luna.