E se in qualche cassetto giacesse ramingo un nuovo “Guerra e Pace”? Se nella memoria d’un pc qualsiasi, tra un racconto e delle immagini d’una vacanza a Marina di Camerota, dimenticata stesse la raccolta poetica di una nuova Merini? Facile rispondersi che quasi certamente non lo sapremo mai. Nessuno ce lo verrà mai a dire, nessun genere di pubblicità lambirà la nostra curiosità. Termine onnicomprensivo, riferito oramai ad ogni genere di media, pubblicità pare essere sempre accompagnato da un’accezione negativa eppure, dobbiamo dirlo, senza nessun messaggio veicolante nulla è dato sapere, a meno di non affidarsi al passaparola. Questo dovrebbe essere uno dei compiti delle case editrici, divulgare, mettere a conoscenza, spingere in un certo senso, oltre a scovare i talenti, e correre l’alea di tramutare in carta, più carta è meglio è, l’idea dello scrittore.
Assistiamo tuttavia ad un fenomeno in crescita esponenziale, diffuso e strillato, che pubblicizza se stesso più che i contenuti che stampa: l’editoria a pagamento. Orbene, urge una precisazione.
Con la locuzione “contratto d’edizione” si fa riferimento, in termini spiccioli, al contratto con il quale l’autore dà incarico all’editore di riprodurre (creare cioè un supporto materiale a ciò che fino a quel momento potrebbe essere solo nella sua testa) un’opera, e l’editore si impegna a sue spese a stamparla e pubblicizzarla. Quando questi elementi essenziali mancano non ci troviamo davanti ad un contratto di tal genere.
Il sistema delle case editrici a pagamento, EAP l’acronimo con cui in genere si appellano, è esattamente inverso: la casa editrice chiede all’autore dei soldi per stampare alcune copie della sua opera, fidando, ma questa potrebbe essere solo una mia maliziosa costruzione, sul fatto che l’autore farà in modo che un minimo di copie siano da questo vendute ad amici e parenti. A seguito della pubblicazione il nulla. Nessuna promozione, nessun aiuto all’esordiente incauto. D’altronde non c’è interesse non essendoci stato investimento. La prima conseguenza traibile da tutto ciò pare essere ovvia, non dovrebbero evidentemente chiamarsi case editrici. Circolano i tomi, con copertine dalla grafica avvilente, spesso privi di correzione abbondano di refusi, non posseggono codice IBSN o bollino SIAE. Da un lato piccole case editrici che investono, credono nei loro prodotti, stentano a crescere in un mercato che appare saturo e spesso incapace di scegliere, dall’altro le EAP, soggetti che creano un sottobosco invisibile proliferante di persone illuse, che poi si arrabattano nel tentativo di far conoscere il frutto dei loro lobi. Superando allora questo errore lessicale, conviene chiedersi se davvero il fenomeno in sé sia giustificabile dal punto di vista pratico.
Esiste un valore pedagogico innegabile nella parola NO, e il bisogno di imparare non si limita certo all’infanzia, e anche se è innegabile che non sempre i talent scout della scrittura siano lungimiranti, valutare autonomamente il proprio lavoro e stabilire che valga la pena sia divulgato non è sempre un processo imparziale, ogni scarrafone è bello a mamma soia, verrebbe da dire. In America in modo più realistico si parla di Vanity press, in Italia invece si consente l’identità di definizione, e i soggetti proliferano. Non c’è dubbio che ci si possa sentire sfiduciati dinanzi a scaffali pieni di libri della D’Urso, o a vedere in cima alle classifiche di vendita il solito panettiere, ma il pubblico è sovrano, il mercato lo crea in parte, perlopiù lo segue. Senza contare che si tratta di, evitiamo i giri di parole, soldi buttati, i libri editi ( siamo certi siano editi?) in questo modo restano sui propri scaffali, in bella mostra per parenti ed amici che possono ignorare il processo, non sapere che il portafogli lo si è aperto per far uscire non per far entrare qualcosa, ma la sostanza non muta.
Non è una democrazia è una meritocrazia, ed è un modello umano, quindi per forza non scevro da errori, ma è così. Non si può scegliere una strada alternativa sperando che sia proprio il nostro il caso in cui ci sarà un miracolo, che saremo candidati allo Strega con il supporto di una di queste stamperie. Case editrici, per i motivi già esposti, non mi sento di definirle.
Se anche partiamo dal presupposto che sia più che ragionevole che uno scrittore voglia vedere nascere in concreto la sua idea, tutto questo non può riguardare tutti, che invertire i termini del contratto tipo inverte necessariamente i risultati, che lo scrittore, esibizionista per indole nella maggior parte dei casi, non potrà vedersi soddisfatto dal fatto che la sora Cesira, salumiera storica della famiglia, tenga esposto il frutto delle proprie elucubrazioni nel reparto surgelati.
Siete scrittori? Pazienza, abbiate pazienza, cercate con cura chi davvero crede in voi, prendetevi i no, forse davvero avete finali mosci o eccedete negli aggettivi, se volete farvi conoscere prediligete canali gratuiti come la rete, se proprio non dovete guadagnare fate almeno in modo di non diventare l’allocco di turno.
Ricordatevi Collodi: se sotterrate 3 soldi sotto un albero, non crescerà un arbusto che produce soldi, ma la Volpe editrice se li metterà in tasca, allora sì non vi resterà che il plauso della sora Cesira.