In seguito alla disillusione per la sconfitta della rivoluzione partenopea del 1799 prese vita la tanto criticata opera di Vincenzo Cuoco, nato a Civitacampomarano, in Molise, nel 1770.
Nei primi anni Novanta esercitò come avvocato, almeno finché non venne coinvolto nelle vicende della Repubblica Partenopea, incarcerato dai Borboni ed esiliato. Nel 1801 fu pubblicato in forma anonima il suo Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, il quale fu in seguito modificato e ripubblicato a firma dell’autore (1806). L’opera di Cuoco, anche se considerata da molti farraginosa e imprecisa, fu redatta con grande spirito di spontaneità: i concetti in essa contenuti ben si confacevano a quello che era il modo comune di pensare dei liberali moderati italiani. Il Saggio, infatti, si presentava come la classica opera adatta alla contemporaneità, focalizzata com’era sulla delusione per il fallimento giacobino e l’astrattezza dei programmi rivoluzionari del tempo.
La critica di Cuoco, beninteso, riconosceva pienamente l’eroismo dei patrioti, che agirono in buon fede per liberare il popolo dalla repressione borbonica; tuttavia la parte centrale, il cuore del ragionamento dell’autore, sta nella denuncia di ciò che egli stesso chiama “rivoluzione passiva”, basata su una meccanica ripetizione del modello francese ad una realtà completamente diversa quale quella dell’Italia meridionale,.
Secondo il parere di Cuoco bisognava abbandonare la rigida impostazione mentale dettata dall’ideologia illuminista in favore di una più malleabile ed elastica concezione “popolare” e “nazionale” della rivoluzione. Fermo restando che il senso generico di quanto affermato alberghi nell’invocazione di un’identità nazionale, e in una conseguente rinascita di esigenze legate alla situazione prettamente italiana (e, ancora di più, meridionale), i concetti chiave di “popolo” e “nazione” espressi nell’opera risultano quanto meno imprecisi e poco chiari. Proprio in questo sparare nel mucchio, a nostro avviso, sono contenuti insieme la potenza istantanea e l’abbandono sul medio e lungo termine delle teorie espresse dall’avvocato napoletano. Negli anni successivi, poi, egli si orientò verso ideali di unità e di indipendenza nazionali, passando però per un processo fortemente graduale, guadagnandosi in tal modo l’approvazione del regime napoleonico.
Dopo un’intensa attività culturale nella città di Milano (diresse dal 1804 al 1806 “Il Giornale italiano” e pubblicò Platone in Italia, infelice romanzo saggistico generato dalla volontà di riscattare il meridione d’Italia attraverso la saggezza dei classici), rientrò a Napoli per divenire uno degli esponenti più in vista del governo di Murat, per il quale elaborò anche un Progetto per l’ordinamento della pubblica istruzione nel regno di Napoli (1809).
Al ritorno dei Borbone fu allontanato da tutte le cariche pubbliche, così morì in stato di acuta depressione nel 1823.