Vidi la mia vita diramarsi davanti a me come il verde albero di fico del racconto.
Dalla punta di ciascun ramo occhieggiava e ammiccava, come un bel fico maturo, un futuro meraviglioso. Un fico rappresentava un marito e dei figli e una vita domestica felice, un altro fico rappresentava la famosa poetessa, un altro la brillante accademica, un altro ancora era Esther Greenwood, direttrice di una prestigiosa rivista, un altro era l’Europa e l’Africa e il Sudamerica, un altro fico era Costantin, Socrate, Attila e tutta una schiera di amanti dai nomi bizzarri e dai mestieri anticonvenzionali, un altro fico era la campionessa olimpionica di vela, e dietro e al di sopra di questi fichi ce n’erano molti altri che non riuscivo a distinguere.
E vidi me stessa seduta alla biforcazione dell’albero, che morivo di fame per non saper decidere quale fico cogliere.
Esther Greenwood è un’ottima studentessa: buoni voti, prima nei concorsi di scrittura.
Quando vince la borsa di studio a New York, come apprendista in una rivista femminile per l’estate, la sua vita dovrebbe trasformarsi in una foto da copertina, con le scarpe comprate da Bloomingdale, il rossetto rosso e un vestito con le spalle scoperte.
Ha un sorriso splendente in quella foto, “che le divide la faccia in due”.
Eppure qualcosa, dentro, la allontana dalla ragazza immortalata nell’istantanea.
Fin dalle prime righe, con una delicatezza malinconica che non la abbandona mai, Sylvia Plath lascia intravedere le crepe che solcano nell’intimo la mente di Esther.
Come una porcellana fragilissima, la sua sensibilità rischia di rompersi in mille pezzi al contatto con la realtà.
Esther vorrebbe essere come l’odiata compagna di lavoro Doreen, vorrebbe possedere la sicurezza che l’amica ha del proprio corpo, la facilità con cui questa si serve della seduzione.
Invece per Esther il corpo è un estraneo, un nemico che la lega saldamente ad una realtà di cui non comprende le regole.
Intrappolata nella vita newyorkese, Esther tenta, impacciata, di disegnarsi addosso i tratti della ragazza della foto, di assumerne le movenze per poterne condividere il mondo.
Ma ad ogni sforzo la sua identità le sembra sempre più lontana, incerta. Non riesce a comprendere il suo posto nel mondo.
Ad ogni riga, la sua indecisione si trasforma sempre più in una malattia debilitante per il resto della società. Non sa più leggere, non sa più scrivere, non riesce a dormire. Esther ha perso la sua identità, e ha quindi perso se stessa. La morte diviene per lei l’unica soluzione alla mancanza di un’anima, un’ossessione che persegue lucidamente.
“Sei nevrotica”, sentenzierà Buddy Willard, con una certa prepotenza, quando Esther affermerà di non essere sicura se preferire la campagna o la città, di non essere sicura di volersi sposare.
E la sua diversità verrà, infatti, trattata come nevrosi, rinchiusa in un ospedale psichiatrico e sottoposta all’elettroschock.
La campana di vetro è l’assenza di scelta, l’impossibilità di essere compresa dagli altri, l’impossibilità di mostrare il proprio dubbio. Esther, come Sylvia Plath, è intrappolata in una campana di ovatta, una cupola in cui l’aria è risucchiata dall’ordine prestabilito delle cose.
Disarmante nelle descrizioni del male di vivere, intelligente e profondo, è un libro che può essere letto, non spiegato.