“Fu un improvviso scatto di delirio. Mi ero sempre ritenuta una persona tranquilla, e invece nel profondo dell’animo covavo la mia segreta follia. Un giorno ho perso il controllo, sono andata su tutte le furie e ho picchiato mio marito. Forse era soltanto un momento di stanchezza, Ettore andava sempre in giro, questo mi esasperava. Mio marito, terrorizzato, ha chiamato l’ambulanza. Ma la più spaventata ero io: mi sono trovata al cospetto di una parte di me che non conoscevo. Non sapevo neanche che esistessero i manicomi: è stata una rivelazione orrenda. Il primo ricovero non è stato spontaneo. Tutti i successivi però si. (…) Perché mi accorgevo da sola che non stavo bene.”
Nel 1986 la poetessa Alda Merini pubblica un’opera in prosa di carattere autobiografico: pensieri, lettere e qualche verso di una donna che ha voglia di raccontarsi mettendo da parte, per una volta, le poesie e condividendo con i lettori la sua atroce esperienza nel manicomio. “Del resto ero poeta” sottolinea però la Merini nelle prime pagine del suo diario, quasi a voler evidenziare che prima di essere donna, prima di essere instabile lei è tutt’uno con i suoi versi e forse è in questo che vive la sua diversità, la sua impossibilità di scindere ciò che è da ciò che scrive. La sua consapevolezza, la sua capacità di descrizione e la sua sensibilità nell’analizzarsi fanno delle pagine del suo Diario una struggente documentazione di una vita disagiata che non risparmia atrocità nella narrazione, dieci anni passati dentro delle mura dove la solitudine era l’unica compagna e deliri momentanei si alternano a riflessioni di una coscienza che si sente persa e vuole ritrovarsi, nella costante voglia di salvarsi, prendendo anche meno medicine solo per essere più se stessa e meno intontita nella prigione della sua vita.
Struggente la lettera che la Merini scrive al suo medico, dove, con la forza di chi vuole cambiare, confessa che solo una persona può aiutarla in questo ed è proprio quella dalla quale è scappata, il marito. Diversità e solitudine, saldo binomio nella realtà di un manicomio che insieme salva e distrugge, riducendo a vegetali le persone come se soffocando la loro personalità li si potesse salvare. Cosa si salva poi se si punta all’annullamento? No, la poetessa milanese non vuole annichilirsi di fronte al suo destino, vuole combatterlo, uscendo dalla sua battaglia sana, integra e comunque se stessa. A soli trentaquattro anni non si può credere di finire col morire della propria follia. Sarebbe essa stessa una follia. Erano gli anni Sessanta quando la Merini entrò in clinica la prima volta, quando insieme alla sua depressione, alle sue paure e alla sua confusione cominciò il viaggio nel suo inferno personale che a volte sapeva meno di inferno e più di vita, quando negli altri malati trovava una primordiale sensibile umanità. In alcuni momenti ha creduto anche di amare lo psichiatra, il dottor G, che la teneva in cura, scoprendo poi che era stato solo un transfert perchè in lui, la poetessa vedeva un uomo che le restituiva luce quando il suo vero compagno gliela aveva sottratta confinandola lì. Quanto ha odiato il marito durante la sua segregazione e quanto l’ha amato poi nel perdonarlo. L’esperienza del manicomio però non l’ha dimenticata mai.
Il manicomio, il luogo più esterno alla vita, non era fatto solo di pastiglie ed elettroshock, ma di amore. Un sentimento che indirizzavo sulle cose più semplici, sui gesti più elementari. Se uscivo, come a volte accadeva, gli altri matti mi chiedevano di comprargli le sigarette, il vino, la cioccolata. E se mi riusciva di farlo, sentivo che il legame affettivo che la follia a volte crea tra le persone è più forte di quello che ci procura la normalità. Quanto alla morte, a lungo mi ha sfiorata, ho convissuto con la sua assenza, con il timore che si affacciasse e dovessi affrontarla. La morte è stata per me uno strano corpo a corpo, vicina e remota al tempo stesso.