Mamma, quel vino è generoso, e certo
oggi troppi bicchieri ne ho tracannato…
[…] Oh! nulla!… È il vino che mi ha suggerito!
da Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni
(libretto di G. Targioni-Tozzetti e G. Menasci)
Alla fine, nonostante tutto, la magia del teatro mi vinse di nuovo.
Certo non mi sarei fatta sfiorare neanche per tutto l’oro del mondo da quel panzone sudato, stretto a forza nel costume di scena di compare Turiddu, però la potenza della musica e l’inganno congiunto di scene, luci e abiti gli tolsero di botto una quarantina di chili e mi fecero immaginare l’affascinante malandrino che finisce sbudellato per gelosia dal rivale.
Dopo l’urlo straziante di Santuzza, un mezzosoprano che pareva un’applicata di segreteria invece che una rissosa licodiana, applaudii commossa e convinta.
Troppo tardi per la cena. Il mio accompagnatore del momento – non lo chiamavo fidanzato per scaramanzia, non si sa mai – volle portarmi in un wine bar.
Lui che si piccava di conoscere vini, vitigni, annate e i giusti abbinamenti vino-vivande, inorridiva se mangiavo pesce innaffiato con birra o se mi azzardavo a bere una plebea gazzosa.
«In compenso tu confondi Puccini e Mascagni e Leoncavallo per te è un formaggio», lo rimbeccavo io.
Non chiedetemi che cosa mi fece bere quella sera: so solo che a darmi il colpo di grazia fu un Nero d’Avola. Cominciai a cantare ”O Lola ch’hai di latti la cammisa” e finii col mordere un orecchio al mio compagno per sfidarlo a un duello d’amore.
«Io ti amo. In vino veritas, no?» furono le mie ultime parole.
Chi va con lo zoppo, impara a zoppicare. Io che avrei potuto subire la prova del palloncino dopo aver solo stappato un prosecco, fui iniziata alla religione dell’uva e imparai a praticarne il complesso e faticoso culto: sagre del novello, fiere delle botti di rovere, degustazioni (almeno si mangiava pure qualcosa e ci scappava pure un po’ di musica), peregrinazioni per aziende vinicole, inviti a cena con sommelier. Devo ammettere che i miei gusti in materia si affinarono non poco: iniziai a speculare sull’annata di Bordeaux del brindisi di Traviata, mi domandavo che sapore avesse il sakè di Madama Butterfly, come fosse fatta la manzanilla che Carmen trinca chez Lilas Pastia e che cosa buttassero giù quei poveri figli della Bohème.
Io ed Enrico ci eravamo conosciuti – vedi il destino, cinico, baro e pure ubriacone – davanti a un bicchiere di sangria che avrebbe steso un taverniere della Castiglia.
Io mi bagnavo le labbra cercando il modo più elegante di abbandonare il bicchiere e fiondarmi sugli antipasti, lui iniziò una dissertazione sulle mirabili proporzioni della perfetta sangria.
Mandai giù otto bicchieri e mi ubriacai di lui.
«Signorina, ha il fegato un po’ affaticato. Niente di grave, ma è meglio che si limiti nella dieta. Le prescrivo qualcosa per aiutarla».
Non riuscivo a credere al mio medico. Beh, le mie analisi assomigliavano a una carta dei vini, ma non sono un’alcolista, no.
Enrico naturalmente se la prese con me. «Io degusto, vedi? Tu invece bevi».
Avrei potuto rispondergli che stavo sviluppando una bella intolleranza per lui oltre che all’alcool, ma pasticciai con Corvo glicine e non so più con quante delle sue gradazioni alcolico-cromatiche.
Vomitai nel cestello del ghiaccio.
Durante le riunioni degli Alcolisti Anonimi venne fuori che non era quella all’alcool la mia vera dipendenza: era Enrico che mi intossicava.
All’inizio non lo volli ammettere, ma mi ero attaccata a lui come un poeta decadente a un fiasco di assenzio. Non ero più io: conoscevo ormai più viticoltori che direttori d’orchestra, mentre Enrico a teatro era culo e camicia con i baristi del foyer e mi abbandonava nel palchetto per una nuova mistura che – devo, capisci? mi diceva – doveva per forza insegnare a quei dilettanti dell’aperitivo.
La goccia che fa traboccare il bicchiere – pardon, il vaso – non tardò ad essere versata dalla mano spesso misericordiosa del destino.
Io ormai mi sentivo un passito: Enrico si guardava attorno con insistenza e interesse decisamente sospetti.
Un esteta come lui era alla ricerca del novello perfetto… e lo trovò, anzi la trovò: una deficiente che aveva al suo arco le frecce appuntite dei capezzoli di un paio di tette mature al punto giusto per il torchio.
Quando li sorpresi a letto non mi arrabbiai neanche: per la mia vendetta mi era bastato vedere Enrico passarle sulla pancia perfetta un cubetto di ghiaccio.
Sul comodino c’erano due bicchieri pieni e una bottiglia appena stappata di Coca-cola light.