Dunque in quei giorni, una impazienza straordinaria dominava la mia vita. Niente di quello che facevo mi piaceva ossia mi sembrava degno di essere fatto; d’altra parte, non sapevo immaginare niente che potesse piacermi, ossia che potesse occuparmi in maniera durevole
Quando Alberto Pincherle, più noto con il cognome di Moravia ricavato dalla nonna paterna, pubblica La noia, sono passati tanti anni dall’uscita de Gli indifferenti. Lì eravamo nel 1929, l’autore aveva solo ventidue anni e il popolo italiano stava ormai facendo sempre più l’abitudine alla dittatura fascista. Adesso siamo nel 1960, Moravia è un uomo maturo di cinquantatre anni, Mussolini e il regime sono solo un ricordo e l’Italia è nel pieno del boom economico seguito alla dura ricostruzione postbellica.
Eppure, il filo conduttore è lo stesso. Alberto Moravia si dimostra uno tra gli uomini di letteratura con lo sguardo più lucido sulla classe della borghesia, colonna della società italiana. I tempi sono certamenti diversi e tante cose sono cambiate, ma l’analisi dello scrittore è sempre puntuale, tagliente, tanto spietata quanto semplice ed evidente nella narrazioni dei suoi romanzi, al cui interno emergono le figure tipiche del mondo borghese, e in particolare romano.
Sotto la dittatura o sotto la repubblica, questa classe sociale appare sempre grigia, incapace di uscire da una condizione che è innanzituto esistenziale, e nella quale dominano grettezza d’animo e cieco egoismo.
Il punto di vista di Moravia è certamente privilegiato: egli ha infatti l’opportunità di poter “testare” in prima persona la condizione di quella classe borghese romana che, tra cinismo e ironia, pur non disdegna di frequentare.
La noia, il romanzo più significativo del percorso letterario di Moravia proprio dopo Gli indifferenti, affronta con straordinario rigore critico e lucidità una tematica estremamente attuale alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, ossia l’alienazione della classe borghese italiana in un contesto di neocapitalismo che comincia a sancire il trionfo del Denaro.
Condizione esistenziale, abbiamo detto prima. È proprio così: rispetto al romanzo del ’29, Moravia condisce la sua creazione artistica e la sua visione della realtà con un mix filosofico di esistenzialismo e marxismo, unendo in maniera magistrale il tema dell’assurdità della realtà con l’ossessione della proprietà e del possesso. Il narratore-protagonista è Dino, intellettuale di una ricca famiglia romana, pittore in crisi prigioniero di un senso di vuoto e cupo grigiore che egli qualifica, appunto, come “noia”: una sorta di indifferenza ed estraneità verso persone ed oggetti, una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà, che lo attanaglia fin da quando è bambino.
Dino esce, o meglio tenta di uscire da questa condizione, attraverso un’intensa relazione erotica con la diciassettene Cecilia, strumento nelle mani del protagonista, che riversa la sua irriducibile sete di possesso sul partner. Tra i due si instaura con il tempo un rapporto non sano, fatto quasi esclusivamente di sesso, ma di una passione del tutto spenta. Al di là del legame tra Dino e Cecilia, nel cui segno si chiude il romanzo, l’opera porta alla luce il modo ossessivo, tipico di quegli anni, che conduce l’esperienza erotica a chiave di comprensione dell’intera realtà, tra personaggi tra cui dominano solo egoismo e indifferenza.
È il denaro – sembra asserire in ultima istanza il narratore – a contaminare la nostra vita. Quel denaro con il quale Dino, in un attimo di lucida follia, ricopre il corpo di Cecilia, portando in superficie quel subconscio già terreno di studio di tanti psicoanalisti.