Pensavo al futuro e parlai del passato. Perché Holly voleva sapere qualcosa della mia infanzia. E mi raccontò la sua, ma era qualcosa di misterioso, senza nomi, senza luoghi, una ricostruzione impressionistica: pure faceva un effetto molto diverso da quello che si poteva aspettare, perché Holly dava un resoconto quasi voluttuoso di nuotate estive, di alberi di Natale, di graziosi cuginetti e di feste: in altre parole, un mondo felice di una felicità che non era la sua, e mai, certo, l’ambiente di una bambina che era dovuta fuggire.
Capita che i film, a volte, superino di fama i libri da cui sono tratti, fin quando non ci si dimentica completamente che qualcuno, prima che un certo regista avesse quell’idea, aveva creato quella data storia dal nulla, dandole una sfumatura più profonda.
Leggere “Colazione da Tiffany” quando si conoscono le battute del film a memoria, ad esempio, può sembrare futile. Pure Capote, che della scrittura si serve come una vecchia amica, ha dipinto il suo romanzo di un forte contrasto di colori, da cui spunta, come in un quadro di Monét, la figura di Holly Golightly.
La storia di Holly, moglie-bambina fuggita dalla campagna, è quella di una ragazza che della superficialità se ne fa un vanto, nella speranza che nel fiume delle sue parole si perda la tristezza di una vita trascinata da un letto all’altro, da un provino come starlette, ad una relazione con un ricco omosessuale fermo ad un’intelligenza di quinta elementare.
Il linguaggio di Capote sporca di tinte dolci-amare il racconto, nei dialoghi tra personaggi fuori dagli schemi, nelle descrizioni dei party in una New York anni ’40, in cui l’acool si mescola alla vita in un eccentrico vortice di ambizioni e bugie.
Ma, sopratutto, Truman Capote descrive, con una sensibilità che si lega stranamente ad un certo cinismo, la solitudine e la fragilità della sua protagonista.
Nascondendosi dietro lo sguardo di uno scrittore di cui non viene mai fatto il nome, disegna i tratti, a volte sfuggevoli, di una ragazza che affoga la sua disperazione nelle luci rassicuranti di una gioielleria. Incapace di dare un nome a quel senso di vuoto, Holly descriverà i suoi attacchi di panico come “paturnie”, nel tentativo di riportare la malinconia della sua esistenza, ad un gioco facilmente risolvibile,
“Ho una paura terribile, brutto” dirà allo scrittore-narratore, “Si perché non può continuare così per sempre. A non sapere cos’è tuo finché non lo butti via”.
Le nostalgiche canzoni suonate nelle scale di emergenza, la patetica fiducia in un gangster carcerato e in un uomo che la nasconde alla sua famiglia. La storia di Holly, apparentemente superficiale, è, in realtà, profondamente triste.
Brillante, sintetico nelle descrizioni sempre acute e precise, Truman Capote crea un personaggio leggero e disperatamente malinconico, di cui la versione cinematografica non riesce a coglierne a pieno l’interiorità, forse anche per un problema di censura dell’epoca.