La luce gialla del lampadario si spalmava placidamente sul bianco della tovaglia. L’unica ombra che ne turbava il candore era quella della mamma. Il suo andirivieni dal piano cottura alla tavola aggiungeva una gradazione a quella monotonia cromatica.
La cena si svolgeva in un silenzio irreale. Il rumore delle forchette fruganti nei piatti anziché rompere quell’aria incantata la sottolineava. Era piena estate: gli emigranti facevano ritorno alle loro case. Così avvenne anche per la famiglia Nolo: il capofamiglia, Peppino, era riuscito a raggiungere casa dopo sei anni di lontananza. L’ossequio nei gesti delle figlie e della moglie faceva parte del cerimoniale. Un tacito accordo stipulato tra le donne della famiglia per non turbare la stanchezza del padre. L’arrivo a sorpresa di Peppino aveva risparmiato alle ragazze Nolo giorni e giorni di pulizie estenuanti e raccomandazioni che con il passare del tempo si sarebbero trasformate in litanie.
Tutta quella recita senza sonoro venne interrotta dal rumore della sedia di Peppino ricacciata indietro. Gli occhi delle ragazze vennero calamitati dal volto del padre, cartina geografica di vita vissuta. Le innumerevoli notti insonni si erano spalmate come solchi intorno agli occhi. Le labbra erano state irrimediabilmente increspate dal vento e i capelli avevano lo stesso colore del mare quando viene ferito. Aveva appena quarant’anni.
– Io vado a dormire – disse laconico.
Le ragazze si alzarono in piedi e accompagnarono con lo sguardo i passi stanchi del loro padre. Non appena Peppino chiuse la porta della sua stanza, Emma si sedette, raccolse le mani alla bocca e baciandole ritmicamente, disse, con gli occhi bassi:
– Da domani si cambia musica! E’ tornato vostro padre..
Sulla scia di quelle parole si posarono le riflessioni delle giovani ragazze. Iniziarono, per la prima volta dalla sua venuta, ad assaporare la presenza di colui che fino a quel momento era stato per loro, un semplice estraneo.
La severità della donna era dettata dal ruolo. Anche lei sapeva che era del tutto infondata. Certo, per Emma non era stato per nulla semplice gestire quattro ragazze proprio nel momento in cui si affacciavano alla vita. Ma, a onor del vero, al di là di qualche litigio fra loro, le ragazze Nolo avevano concesso sonni tranquilli alla loro burbera madre.
La mattina seguente, all’alba, dopo aver sellato l’asino per la nuova giornata in campagna, Emma risalì velocemente le scale ed entrò nella camera delle ragazze. La scena che le si prospettò davanti aprì sul volto un sorriso compiaciuto. I corpi delle ragazze si impastavano fra le lenzuola, i petti acerbi si gonfiavano e abbassavano a ritmo cadenzato, quasi a seguire una stessa impalpabile melodia.
La donna rifletté su come quel totale abbandono non avesse mai fatto parte della sua vita. Con il volto solleticato dalla corrente proveniente dalla finestra richiuse la porta della camera delle ragazze. Passando dalla cucina si ricordò del vino per il marito. Iniziò a scendere le scale con la bottiglia poggiata sul fianco e lo sguardo perso nel vuoto. Il rumore del liquido sbattente sulle pareti dava ritmo ai suoi passi. Quel tonfo sordo le portò alla mente quella mattina di giugno del ’40. Si configurò dinanzi ai suoi occhi l’intreccio di due mani, una piccola rintanata in una più grande. E la gente, tanta gente che applaudiva in maniera fragorosa all’ascolto di una voce proveniente dagli altoparlanti posizionati ai lati di Piazza Duomo. Nessuna delle persone lì presenti avrebbe mai potuto immaginare che l’elettricità vibrante di quella mattina di inizio estate avrebbe cambiato per sempre il pentagramma delle loro vite; né tantomeno la piccola Emma. Il raglio dell’asino la destò dal torpore; i portoni posti a custodia dei suoi ricordi per quella mattina potevano essere richiusi.
Alcune ore dopo, quelle stesse scale vennero percorse dal passo lento e elegante della figlia Bianca. L’aia, arroccata sul punto più alto del paese, era il posto preferito dalla terzogenita Nolo. Chiuse la porticina di legno alle spalle e iniziò a lasciar cadere dalle mani grandi manciate di grano, assistendo divertita alla formazione di piccoli capannelli di galline intorno ai suoi piedi. Dopo aver assolto il suo compito si sedette sulla protuberanza rocciosa che faceva capolino dal mosaico delle mattonelle. Come quella roccia si sentiva una nota stonata in quell’apparente perfezione. Con il mento poggiato sulla mano iniziava ad introiettare distaccati fotogrammi di paesaggio nei suoi verdi occhi liquidi. L’odore forte della stoppia bruciata si stemperava in quello dolce e delicato delle orchidee. Una melodia lontana inebriava l’aria, inconsapevole sottofondo musicale dei pensieri di una ragazza; il cielo azzurro diveniva la tela sui cui prendevano forma i suoi sogni più belli. A volte capitava che si addormentasse con un sorriso stampato sulle labbra pregustando la dolcezza dei giorni a venire.
La veglia cedeva il passo al sonno e le immagini che fino a poco tempo prima ubbidivano alla sua logica ordinatrice lasciavano il posto a quelle indefinite e autonome del sogno.
A un certo punto la compostezza della gonna rosa antico venne turbata da una folata di vento. Era arrivato il momento di risalire in casa. Lasciò il freddo della pietra con la consapevolezza che la clessidra della vita le avrebbe riservato ancora tanta e buona rena nella parte superiore.
L’aria che l’accolse nel sottoscala iniziò ad inquietarla. Un’ansia elettrica incominciò a renderle ovattata la testa. Una serie di pensieri monchi le annebbiavano la vista. Tutto quel torpore venne interrotto, all’improvviso, dal grido straziante della sorella Mia. Non appena la vide, le corse incontro, le gettò le braccia al collo e tra i singulti disse: – La mamma… la mamma!
Come sdoppiata, Bianca riusciva ad inquadrare la scena dall’alto. Negli anni a venire ogni qualvolta le avrebbero chiesto della morte di sua madre, dal fiume dei ricordi non avrebbe pescato nessun’altra immagine che non fosse quella. Non avrebbe ricordato i pianti sceneggiati dalla consuetudine delle vicine di casa o il lento incedere della bara verso il cimitero. Avrebbe avuto sempre l’immagine di quelle due ragazze irreparabilmente incastrate nel dolore.
Emma aveva quarantacinque anni. Li avrebbe avuti per sempre.