Di libri se ne parla anche troppo. In giro c’è aria di cultura.
Basta guardarsi attorno. Gli eventi culturali prolificano e così accade per i premi letterari. Per non parlare delle mostre. Ogni città si fa un vanto di dedicare uno spazio pubblico agli incontri o alle manifestazioni che al loro centro hanno il libro come protagonista.
E mi sono dimenticato dei quotidiani con le loro pagine dedicate alla cultura, o della televisione i cui talk-show hanno quasi sempre come ospite qualche scrittore che presenta il suo ultimo “lavoro” fresco di stampa.
Ma, nonostante gli sforzi, all’Italia spetta ancora il primato della non-lettura. Un buon 50% dei nostri compaesani non legge e ho seri dubbi anche su buona parte dell’altra metà. Sul fenomeno si sono versati fiumi d’inchiostro e strali d’invettive. Non è da paese civile l’intolleranza al libro, si è soliti dire.
Allora osserviamo quel che resta della nostra civiltà, vale a dire immergiamoci per un solo secondo sul comportamento di quel misero 10-20% di lettori (forti, come vengono definiti).
Pur senza voler generalizzare, il loro comportamento si manifesta se, come angolo di vista, si assume un salone del libro importante come può essere quello di Torino. All’apertura ci sarà certamente una fila sufficientemente lunga ai botteghini. Non importa il costo del biglietto. Basta esserci. Centinaia di editori (grandi, medi, piccoli) hanno già montato gli stand e sono in attesa. La folla dei lettori si riversa nel salone. Guarda il programma (presentazioni e discussioni pubbliche) e s’aggira tra gli spazi espositivi. A me ha sempre colpito il comportamento di tutti quei visitatori che immediatamente affollano gli stand degli editori più importanti e influenti, ignorando quasi del tutto quelli di colleghi meno blasonati e visibili. Insomma mi ha sempre colpito la mancanza di curiosità perché la massa dei lettori dovrebbe rivolgere l’attenzione proprio all’offerta dei piccoli editori che hanno difficoltà ad essere presenti in libreria e perché hanno spesso un catalogo povero di titoli ma di assoluta qualità.
Allora c’è da chiedersi se un’epidemia di omologazione non ci abbia contagiato. C’è da chiedersi se questa strana malattia non abbia contagiato addetti al settore (scrittori, editor, etc.) e lettori.
Qualche esempio di ciò che intendo dire.
Paolo Giordano nel 2008 vince il Premio Strega con La solitudine dei numeri primi. Opera prima. A scoprirlo fu Antonio Franchini, allora editor della Mondadori e attualmente direttore editoriale della narrativa italiana per la stessa casa editrice. Il sospetto è che Paolo Giordano abbia avuto l’idea e a Franchini sia toccato il compito di ridefinire il romanzo per presentarlo al premio Strega. Insomma un libro costruito a tavolino per fare profitto. La Mondadori deve aver davvero guadagnato molto con La solitudine dei numeri primi, così come deve aver guadagnato molto Paolo Giordano. Tutti contenti? Bhé, sì, tutti contenti, ma a perderci, se proprio si vuole una riflessione ulteriore, è stata la Cultura con la “C” maiuscola. A nessuno, infatti, sfugge che Giordano, dopo quel libro, è stato colto da una sorta di “afasia” letteraria. Dopo quel libro non c’è altro. Insomma come scrittore aveva già dato tutto e vinto il premio più prestigioso. Un libro ulteriore si sarebbe dovuto misurare con quel primo (non sappiamo quanto meritato) successo. Insomma alla Mondadori va il merito di aver tarpato le ali a un potenziale protagonista della vita intellettuale del nostro paese.
Lo stesso destino è toccato ad Acciaio di Silvia Avallone, edito dalla Rizzoli. Nel 2010 si aggiudica il secondo posto allo stesso premio. Medesimo è il successo di pubblico e critica. Peccato che anche l’Avallone non abbia scritto altro dopo quel libro.
E poi siamo tutti immersi in una realtà che ha tanto sapore di noir. Ogni telegiornale pare un bollettino di guerra. Donne uccise da mariti infedeli, genitori vittime di figli psicopatici, crisi di ogni tipo. Ed è di questo che si alimenta la scrittura. L’imperativo è costruire romanzi con molto ritmo e una lingua che di letterario ha ben poco. Insomma l’impressione è che gli scrittori si siano messi a far concorrenza al medium televisivo che sollecita di continuo il voyeurismo di un pubblico non più disposto a comprendere.
Giunto a questo punto, potrei con tutta tranquillità affermare che ci stiamo infilando su una via che porta diritto in una zona di desertificazione e me ne assumerei persino la responsabilità. Ma ogni medaglia ha il suo rovescio. Siamo in piena globalizzazione, questo è vero, e ciò significa che ogni verità può essere un’apparenza perché manipolata da chi desidera che il mondo vada in un certo modo e che le mode siano assunte a modelli di vita e non più come creazioni significative di uomini e donne, ma la globalità significa anche che questi uomini, donne, bambini esistono con i loro desideri e sogni che giorno dopo giorno si trasformano in patrimonio culturale della specie umana.
Al di là di ogni retorica, credo che la realtà (questa realtà) sia fatta di aspetti e dimensioni diverse e che la cultura e il libro occupino un posto non marginale pur nel pieno di tutte le contraddizioni possibili.