Tutti i giorni, almeno una volta al giorno. A far avanti e indietro in quella fessura buia e stretta. Qualche volta con l’aiuto di un lubrificante, qualche altra senza, così, di pura forza.
Poi il resto del tempo al buio, senza veder la luce se non in bagno quando gli indumenti vanno giù ed io magari scivolo fuori, impertinente. Potrebbe sembrar una vita monotona la mia, eppure se non ci fossi io, irraggiungibili sarebbero le delizie famigliari.
Si ha un bel dire che il sentimento abbatte tutte le barriere, ma sfido chiunque a campar solo di quello. Invece intervengo io e si schiudono le domestiche gaiezze.
Un colpo, due, quando c’è necessità anche di più, e poi è tutto un tripudio di baci e abbracci. Una soddisfazione, anche se dopo l’oscurità mi attende. Vorrei uscire più spesso, lo riconosco, perciò a volte spingo con tutta la mia durezza tanto da provocare fastidiosa insofferenza.
Qualche volta una mano mi accomoda alla meglio, mi spinge giù acciocché io la smetta di importunare l’occupazione del momento, talaltra mi si lascia lì a premere qual rimembranza delle letizie del focolare, ma per me è un tormento uguale.
C’è poco da fare, anelo a scivolar in quella fenditura e sto lì che aspetto con impazienza di venir fuori e rimestar nel buio. E la voglia è così tanta che spesso non trovo la via giusta, forzo la mia natura, m’infilo di traverso e spingo, spingo senza risultato alcuno, allora esco e poi rientro e spingo ancora e ancora finché la maledetta non mi cede e viene meco.
Una fatica, ma vuoi metter l’appagamento quando in ultimo quella mi asseconda, gemendo fino ad aprirsi tutta con lamenti talmente alti da risuonar fin dentro la tromba delle scale. L’imbarazzo che ne viene è tanto ma è in quel momento che la mia vita ha un senso, che il mio essere raggiunge il compimento.
Perché, se non ad aprir serrature, a qual fine si forgiò una chiave?