Se si parla di classici della letteratura occidentale, non si può non parlare di letteratura cristiana.
Nata con l’intento di delegittimare il paganesimo, essa si conquista una fetta sempre più grande nel palcoscenico culturale dell’Europa, diventando strumento fondamentale per una diffusione capillare della nuova dottrina portata da Cristo. E se si parla di letteratura cristiana, non si può tacere il nome di Aurelio Agostino, venuto alla luce nel lontano 354 a Tagaste, in Numidia, e successivamente divenuto vescovo di Ippona: per tutti semplicemente Sant’Agostino, uno dei grandi padri della Chiesa, impegnato nella sua vita in un’intensissima attività pastorale e letteraria.
A quest’ultima appartengono non solo le Confessiones, straordinario archetipo di autobiografia cristiana, ma anche un ricco corpus di lettere ed un’opera del tutto sui generis, che ha conosciuto grande fortuna nel corso dei secoli, contribuendo ad alimentare il mito del santo: Il De civitate Dei.
Si tratta di un lavoro imponente, in cui confluiscono intento apologetico e discussione teologica. L’opera è composta da 22 libri, la cui struttura è chiarita dall’autore stesso: i primi 10 libri rappresentano la cosiddetta pars destruens, in cui sostanziaolmente si confutano le tesi della religione e della filosofia dei pagani, entrambe incapaci di dare la felicità sia in terra che dopo la morte; i libri 11 – 22, invece, costituiscono la pars costruens, in cui Agostino illustra la nascita e l’evoluzione delle due civitates che agiscono nella Storia e nell’Uomo: la civitas Dei e la civitas diaboli.
Intento apologetico e discussione teologica, abbiamo detto sopra. Lo spunto che dà origine al trattato di Sant’Agostino è in effetti costituito dalle continue invasioni barbariche ai danni dell’ormai morente Impero Romano, e in particolare dalla presa di Roma da parte dei Goti di Alarico: l’episodio aveva fomentato in maniera considerevole il partito di coloro che vedevano nel Cristianesimo il principale responsabile dell’indebolimento dell’Impero, e Agostino decide così di rispondere veementemente alle accuse realizzando quest’opera dalla lunga composizione e dall’ambizioso impianto: l’arco temporale della stesura del trattato copre, infatti, gli anni tra il 413 e il 426 d. C.
Dall’undicesimo libro in poi, confutato – come detto – il nocivo pensiero pagano, l’autore si sofferma sulla decrizione di due città ideali: la città di Dio, che dà il titolo all’opera, e la città del diavolo, i cui capostipiti, nelle incarnazioni terrene delle due civitates, sono rispettivamente Abele e Caino. Il De civitate Dei si propone di illustrare sostanzialmente la storia del mondo da un punto di vista, naturalmente, cristiano: l’uomo perde l’immortalità che lo apparentava agli angeli con il peccato di Adamo, e il fratricidio di Caino e Abele segna in modo inequivocabile la sua caduta. Inquadrata in uno schema “esameronale”, in base al quale si succedono sei epoche corrispondenti alle sei età dell’uomo e ai sei giorni della Creazione, la storia di caduta dell’uomo trova un punto di svolta nella venuta di Cristo, unica possibilità di salvezza per tutto il genere umano.
Storia del mondo e dell’uomo risultano dunque intrecciate: le due civitates, sulla terra, non possono essere semplicemente identificate con la Chiesa e lo Stato – anche se una tentazione, in questo senso, sembra esserci da parte di Agostino – mentre nell’animo umano sono naturalmente simbolo di condizioni spirituali. E, come nella società Stato e Chiesa convivono, anche nell’uomo le due città non sono separate: esse vivono insieme, alternando il sopravvento dell’una sull’altra.
All’uomo spetta però l’arbitrio di una scelta consapevole, perchè alla fine dei tempi, afferma il Santo, la separazione tra civitas Dei e civitas diaboli sarà definitiva.