I libri si comprano praticamente ovunque.
Li si trova nei supermercati, sulle autostrade, nelle stazioni ferroviarie, negli aeroporti, nelle edicole, su internet. Se i numeri ci dicono che queste realtà occupano quote di mercato in forte crescita (nel 2010, per esempio, le librerie online hanno aumentato la loro incidenza del 23%), tuttavia è ancora la libreria il punto di riferimento per gli acquirenti (con una quota di mercato del 65% complessivo supera di gran lunga tutti gli altri punti vendita del “prodotto libro”. Per i vari bookshop presenti in rete il dato è del 3,6%).
Ma delle librerie sappiamo ben poco. Per il 2003 Giuliano Vigini in L’editoria in tasca (editrice bibliografica) parlava di 1827 punti vendita “commercialmente significativi”, includendo nel numero le librerie indipendenti e quelle di catena.
Ciò che, però, mi preme sottolineare è che le librerie di catena sono funzionali e, in certi casi, emanazione del progetto dei gruppi editoriali, salvo rare eccezioni.
Una distinzione passa tra quelle che fanno capo a una società di gestione e quelle aperte con un contratto di franchising.
Al primo gruppo appartengono catene come la “FNAC”, “Il Libraccio” e le librerie “Feltrinelli”. Poi ci sono i punti vendita in franchising. Mi riferisco alle librerie Mondadori, Giunti al punto, Ubik, etc.
Queste sigle appartengono ad altrettanti gruppi editoriali. Alla base del contratto di franchising c’è un presupposto che vale la pena esplicitare. Ogni libero cittadino, anche se in vita sua non ha mai letto un libro, si può trasformare in imprenditore dal momento che qui si tratta di vendere una “merce” e le merci si equivalgono. Al potenziale imprenditore viene richiesta una somma di denaro (mediamente da 50.000 a 100.000 euro) per l’acquisto del marchio, una cifra per l’arredamento, il possesso di un locale (100-150 mq) in un luogo centrale di una città X (possibilmente ad alto tasso di reddito) e la solvibilità (il gruppo se l’assicura attraverso una fideiussione bancaria o con la sottoscrizione di una polizza assicurativa). La società di riferimento s’impegna a rifornire la libreria di un minimo di monte merci (si chiama così l’assortimento di base senza il quale una libreria non esisterebbe) e le novità che di mese in mese vengono pubblicate. Va aggiunto che i libri inviati appartengono a varie case editrici (cioè non solo di quelle facenti parte del gruppo) e l’imprenditore paga solo i volumi venduti.
Fin qui tutto per il meglio, se non fosse per il fatto che il punto vendita in questione viene monitorato per un periodo imprecisato di mesi dall’ufficio marketing che ne definisce le reali potenzialità in base alla tipologia di libri richiesta. In una libreria ubicata, ad esempio, in un quartiere di uffici, la società distributrice invierà soprattutto libri per professionisti. Insomma il potenziale imprenditore ha un’autonomia ristretta e le sue decisioni vengono orientate da software gestionali.
A farne le spese sono le librerie indipendenti e le piccole e medie case editrici autonome. Una catena di esercizi commerciali ha possibilità enormi. Sconti maggiori, dilazione nei pagamenti, innovazione nell’offerta dei prodotti (alle Feltrinelli oltre ai libri, ci sono CD, DVD e prodotti multimediali). Oramai i punti vendita autonomi chiudono a un ritmo sempre più sostenuto. Tra loro ci sono anche librerie che hanno fatto la storia di questo paese. Ci sarebbe da chiedersi come mai non si siano costituiti per tempo consorzi autonomi di librerie in grado di far crescere il proprio potere nei confronti dei mega-gruppi editoriali e di opporsi con opportune scelte al dilagare delle librerie di catena. Probabilmente si sono sottovalutati i mutamenti in atto.
Le piccole e medie case editrici sono danneggiate perché, a differenza dei gruppi editoriali che hanno altre vie di vendita, per loro la libreria è ancora il punto di incontro con il mercato.
Ma c’è un fenomeno più generale da non sottovalutare.
La produzione editoriale tra novità e ristampe nel 2009 è stata di 57.558 titoli. È presumibile che in conseguenza della crisi questa cifra sia diminuita, ed è anche presumibile che in questo dato siano compresi tutti quei titoli non adatti al mercato librario, ma penso di non essere lontano dal vero se affermo che in ogni punto vendita entrano mediamente dalle 80 alle 90 novità al giorno e in un mese dalle 2480 alle 2790. Dal momento, poi, che ogni titolo è un prodotto a sé, è anche verosimile che di quel particolare libro il punto vendita ne acquisti un determinato numero di copie (dalle 10 in su. Il numero minimo di copie per dare un minimo di visibilità al titolo). Questa montagna di libri deve, però, essere venduta nel più breve tempo possibile sia per far cassa e sia per far spazio ai libri in procinto di uscire.
Se un titolo non vende, è destinato a svanire dal punto vendita e questo è indipendente dal valore intrinseco del libro. La ferrea legge del profitto dice, infatti, che una libreria per essere in attivo deve in un anno fiscale vendere ogni volume in magazzino 5 volte e che il valore della giacenza finale a prezzo di copertina deve essere uguale a quello iniziale. Non è difficile supporre che quelli che si salvano sono i bestseller, e pronuncio questa parola senza alcuna accezione (un bestseller può anche essere un libro di alto profilo), che, salvo rare eccezioni, sono appannaggio delle catene editoriali
A soccorrere la libreria basta un computer, un software e un tasto. Poi sarà la schermata a dire quali titoli tenere e quali rimandare indietro.
Che importa se fra quei libri può esserci uno Sciascia, un Consolo, un Tabucchi?