Nessun dubbio, nessuna insicurezza, nient’altro che entusiasmo, grande aspettativa e attesa per il viaggio inaugurale del Titanic, l’inaffondabile. Di dimensioni e sfarzo mai visti prima, questo colosso galleggiante provoca dapprima un senso di sgomento a chi si sta per imbarcare, lascia quasi inebetiti per la favolosità di ciò che si ha davanti ai propri occhi. Nell’atmosfera che accompagna la partenza, descritta con precisione da Massimo Polidoro attraverso una moltitudine di personaggi differenti, il sentimento generale è entusiasta.
Eppure, sin dall’inizio della vicenda, indizi e suggestioni della catastrofe si insinuano nel fervore del viaggio: a terra una moglie fa di tutto per trattenere il marito dal compiere il lungo viaggio, a bordo una donna urla terrorizzata per aver visto un “uomo nero”, una storiella apparentemente inoffensiva, quella del sarcofago maledetto, raccontata da un passeggero per intrattenere gli amici, lascia nell’aria un fastidioso senso di inquietudine. Si respira un’aria quasi soprannaturale, contaminata da presagi oscuri e ambigui e cristallizzata dalla convinzione, più volte ripetuta, che la nave sia inaffondabile, quasi a voler scongiurare un reale pericolo, con il risultato di accrescere la sensazione di fatalità nel lettore.
Molta importanza è data dall’autore all’aspetto emotivo e psicologico della vicenda, prima attraverso la descrizione di coloro che, per incidenti o imprevisti, sono stati costretti a rinunciare al viaggio all’ultimo minuto: è inevitabile sottolineare quanto ci si emozioni mentre se ne leggono i nomi, poiché abbiamo ben in mente l’esito della traversata. In secondo luogo, Polidoro tratteggia abilmente la vita sulla nave, mostrandoci scorci di quotidianità dalla prima alla terza classe, dando quasi l’impressione di essere, parlando in linguaggio cinematografico, di fronte ad un campo totale, che mostra simultaneamente tutti i personaggi presenti sulla scena.
La drammatica e inaspettata conclusione del viaggio inaugurale del Titanic appare come l’esplosione di una meccanismo inceppato, costretto a portare avanti il suo macchinoso compito da un occhio cieco di fronte alla crisi. È una serie di infelici coincidenze, di fatto, che provoca un disastro di tali dimensioni: le vedette sono limitate nel loro lavoro dalla mancanza del binocolo, la scialuppe a bordo sono insufficienti, perché se ne avessero messe abbastanza sarebbe risultato antiestetico e perché si era sicuri dell’affidabilità della nave, il telegrafista non fa arrivare il messaggio di avvistamento di iceberg alla plancia di comando, l’imbarcazione più vicina al Titanic non coglie la sua richiesta di aiuto. Si potrebbe quasi ipotizzare che, se anche uno di questi fattori si fosse sviluppato per il meglio, su 2 223 persone a bordo i morti sarebbero stati meno di 1 517. Ma non lo sapremo mai.
L’enorme bastimento è stato ritrovato nel 1985 da Robert Ballard, dopo numerosissime e infruttuose spedizioni di ricerca condotte sin dall’anno dell’affondamento. Impossibile da recuperare, ha comunque fornito un’imponente quantità di oggetti quotidiani, frammenti di scafo, parti di arredamento che negli anni sono stati riportati in superficie. C’è chi pensa che si dovrebbe lasciare ogni segmento del Titanic e della vita sulla nave in fondo all’oceano, quasi a costituire un cimitero sottomarino e un monumento funebre consacrato alle vite andate perse. Altri considerano invece, e personalmente sono d’accordo, che sia più utile riportare ciò che si può sulla terraferma, utile alla memoria, utile a ricordare all’uomo che non è né invincibile né inaffondabile.