Tristia liber I ,4
S’immerge nell’oceano il custode dell’orsa erimantide
e col suo astro fa burrascose le acque del mare.
Noi tuttavia fendiamo non di nostra volontà il mare Ionio
ma siamo costretti a essere audaci dalla paura.
Me sventurato! Che venti furiosi gonfiano le onde
e la sabbia ribolle divelta dagl’imi fondali!
E simile a un monte, sulla prora e sulla poppa ricurva
si getta l’onda, e flagella le immagini dipinte degli dèi.
Romba il fasciame di pino, stridono sbattute
le funi, e la stessa carena geme sulla mia sventura.
Il pilota mostrando col pallore la paura che lo agghiaccia
ormai segue vinto la barca, più non la regge con l’arte
e come un debole guidatore abbandona le non più utili
briglie al cavallo dal collo irrigidito,
così non nella direzione che voleva, ma dove trascina la forza
dell’onda, vedo che l’auriga ha abbandonato la vela alla barca.
E se Eolo non manderà fuori dei venti mutati,
ormai sarò spinto a luoghi che non devo toccare;
infatti lasciata a sinistra lontano l’Illiria,
intravedo l’Italia che mi è stata interdetta.
Cessi, io prego, di soffiare verso terre proibite
il vento, e obbedisca con me al grande dio!
Mentre parlo, e temo e desidero insieme di essere respinto
con che violenza l’onda ha fatto cigolare il fianco!
Pietà, abbiate voi pietà, o numi del ceruleo mare,
e basti che mi perseguiti il nume di Giove!
Strappate voi a una morte crudele un essere sfinito
se pure, chi già perì, non può essere salvato!
Ovidio
Inno e Ritorno
Patria, patria mia, a te rendo il mio sangue.
Ma t’imploro, come implora la madre al figlio pieno di pianto.
Accogli questa cieca chitarra
e questa fronte sperduta.Partii a cercarti figli sulla terra,
partii a soccorrere caduti col tuo nome di neve,
partii a costruire una casa col tuo legno puro,
partii a recare la tua stella agli eroi feriti.
Adesso voglio dormire nella tua sostanza.
Dammi la tua chiara notte di corde penetranti,
la tua notte di nave, la tua stellata statura.
Patria mia: voglio cambiare d’ombra.
Patria mia: voglio mutre di rosa.
Voglio allacciare il braccio alla tua esile vita
e sedermi sulle tue pietre calcinate dal mare,
per fermare il grano e osservarlo all’interno.
Io sceglierò la sottile flora del nitrato,
filerò lo stame glaciale della campana,
e guardando alla tua illustre e solitaria spuma
un ramo litorale tesserò alla tua bellezza.
Patria, patria mia,
tutta accerchiata d’acqua combattente
e di neve combattuta,
in te s’unisce l’aquila allo zolfo,
e nella tua antartica mano d’ermellino e zaffiro
una goccia di pura luce umana
risplende e incendia il cielo nemco.
Serba la tua luce, oh patria, mantieni
la tua tenace spiga di speranza
in mezzo alla paurosa aria cieca.
Nella tua remota terra è caduta tutta quest’ardua luce,
questa fatilità degli uomini,
che ti spinge a difendere un fiore misterioso,
solo, nell’immensità dell’America addormentata.
Pablo Neruda
Esistenze che si incrociano seppur separate da circa duemila anni di storia.
Ovidio Publio Nasone e Pablo Neruda sono infatti legati a doppio filo: entrambi cantori dell’amore libero e passionale, entrambi costretti all’esperienza dell’esilio.
8 d.C. e 1948 le date che segnano i rispettivi destini. Tuttavia la difficile condizione dell’esiliato, lontano dalla patria e dagli affetti, nei nostri due poeti è vissuta in maniera differente.
Anche se non si può stabilire con certezza la causa occasionale che ha determinato la condanna all’esilio, sembra impossibile non ammettere che i motivi reali del provvedimento contro Ovidio siano stati i suoi stessi versi. Dunque sebbene celate dal più tenero dei sentimenti, le sue parole, così libere e spregiudicate, non possono aver lasciato indifferente l’imperatore Augusto, che alla fine riesce a liberarsi di questa voce scomoda e dissonante rispetto al suo programma di restaurazione della moralità e dell’integrità dei costumi.
Per il poeta classico però la relegazione a Tomi segna l’inizio di un lento e doloroso declino che lo condurrà alla morte. La patria amata, agognata e perduta per sempre, diventa, come nel testo proposto, il centro di una serie di elegie che rivelano il dolore e la disperazione di un uomo per il quale un error, una colpa ha determinato l’epilogo tragico e senza ritorno della vita.
Altra storia, ma non diverso dolore nell’abbandonare la terra patria, per Pablo Neruda. Il poeta cileno paga cara la sua adesione al partito comunista e la sua avversione a Gonzalez Videla, contro il quale il 6 Gennaio del 1948 pronuncia un discorso “Yo acuso” . Tuttavia, benché ugualmente perseguitato dalla polizia di tutti gli stati in cui si rifugia, Neruda riscopre nell’esperienza dell’esilio la vicinanza e il calore della gente che gli rende sincere testimonianze d’affetto e vive una passione travolgente con la donna a cui sarà poi legato per sempre, Matilde Urrutia. Viaggia molto, ma si ferma a lungo in Italia, in particolare a Capri, luogo che gli resterà nel cuore per sempre. Difatti il connubio perfetto che si viene a creare tra l’isola e la sua donna costituirà l’ispirazione ideale per versi struggenti, ricchi di sentimento, in cui l’amore si mischia alla politica in toni vibranti e profondi.
Da questa poesia, “Inno e ritorno”, risulta però evidente l’amore che lega il poeta alla sua terra, la quale ci appare quasi come una donna, una madre, che Neruda implora e loda in tutta la sua pienezza.
Pertanto sia Ovidio che Neruda ci conducono ad una stessa conclusione. La loro esperienza ci rivela la precarietà dell’asse su cui un uomo in situazioni politiche avverse è costretto a camminare. In bilico tra la strenua affermazione del proprio io e delle proprie idee, e la patria che, per la prepotenza di qualcuno, da madre, diventa malfida e nemica.
Non è una colpa non riuscire ad essere eroi e a ribellarsi, ma quanto costa rimanere se stessi?