Ci sono otto uomini, chissà a cosa pensano, sanno già dall’inizio cosa li attende visto che è tutta una farsa, uno di loro si chiama Ken Saro Wiwa. Otto uomini penzolano senza vita, impiccati. Non c’è sangue alla fine di un processo fasullo voluto dalla dittatura militare nigeriana, eppure io lo vedo scorrere a fiumi, nero come il “petrolio”. Ken Saro Wiwa era un poeta, un intellettuale, un uomo politicamente impegnato e, soprattutto, era un Ogone, parte di una popolazione costretta ad un esodo silenzioso, a morire per le conseguenze dell’inquinamento, a scappare dalla terra natia mentre un fiume di quell’oro nero si infiltra ed invade ogni luogo, distruggendo tutto e dandogli allo stesso tempo un prezzo calcolabile in termini di profitto. La vita, le radici, le proprie origine vendute, questo Ken Saro non poteva accettarlo. Allora per tappargli la bocca l’hanno ammazzato, gli hanno stretto una corda al collo e lasciato che le sue gambe insieme ad altre sette paia di gambe annunciassero a tutti col loro oscillare che quella punizione attendeva chi si fosse ribellato.
Ken Saro conosce la guerra da vicino, ne scrive anche in quello che è considerato il suo capolavoro: “Sozaboy”. La guerra del Biafra che devastò la Nigeria tra il 1967 ed il 1970, quella che lui visse, è la stessa che vediamo noi attraverso gli occhi dell’ingenuo protagonista del libro, il giovane Mene. Vuol fare l’autista, Mene, vive in un piccolo villaggio e sogna la patente, di sposarsi e poter provvedere a sua madre: ad un certo punto però arrivano i soldati. Gli uomini in divisa sono rispettati, riveriti e serviti come signori, il suo sogno muta direzione allora, tutto quel rispetto lo vuole pure lui. Si arruola tra le file dell’esercito in cerca di quel prestigio, un soldier boy, sozaboy nella lingua autoctona, il nigeriano pidgin. La guerra però non è quel che lui pensava, non gli resta che essere inerme di fronte alle atrocità, un semplice che imbraccia un’arma senza capire neanche il perché, deve “correre”.
“Sozaboy” non è solo una parola, è un inno, così come la scelta dell’autore di utilizzare proprio il pidgin per il suo racconto, una lingua rozza frutto della commistione tra inglese e nigeriano ( dualità resa in italiano dalla traduzione di Roberto Piangatelli). Una lingua che si fa vessillo, bandiera, una scelta identitaria che gli consente di trasmettere il candore di un ragazzo, poco più di un bambino, risucchiato in un vortice di barbarie, stesso candore perso dalla sua nazione: la Nigeria perde l’innocenza con Mene. Si combatté soprattutto a causa del petrolio, lo sporco petrolio di una sporca guerra, non mi pare però di avvertirne l’eco, come se non ci fosse mai stata. Scritto nel 1985, pochi anni dopo il conflitto di cui narra, in Italia ha necessitato gli prestasse la voce un altro uomo coraggioso, Roberto Saviano, per ricevere appunto la propagazione delle sue parole, come se si fosse arrestato il suono e ci fosse stato bisogno d’un megafono. Lo stesso amplificatore che ci ha fatto sapere che la multinazionale Shell, collusa col governo nigeriano al quale aveva chiesto di far tacere gli attivisti, per evitare il processo, ha scelto di pagare 15 milioni e mezzo di dollari, dollari che dovrebbero servire a riparare le colpe per aver fatto perdere la vita, uccidere, sei persone tra cui lui, l’eroe-poeta Ken Saro.
Lo strazio d’una terra, lo strazio d’un uomo. Siamo di fronte a lui ora, è il 10 novembre 1995, stanno per togliergli la vita, dobbiamo fare una scelta: possiamo dimenticarlo, ignorare la sua storia ed i suoi libri contribuendo a stringere il nodo attorno al suo collo oppure no, possiamo scegliere di ricordarlo, leggere i suoi scritti, tramandarne la memoria. Ken Saro Wiwa è morto per lo sporco petrolio, noi possiamo renderlo immortale.
Dalla canzone “A sangue freddo” de Il teatro degli orrori
Hanno ammazzato Ken Saro Wiwa, Saro Wiwa è ancora vivo….è nell’indifferenza che un uomo,un uomo vero muore davvero”.