Stoner.
La campagna e le mani scavate dalla terra, e Stoner che obbediva all’ordine canino di scorrimento di una vita pre-decisa. Il padre, sorta di silenzio rurale umanizzato, attraverso il campo, sotto nuvoloni sempre uguali, chiamava Stoner. E per la giustezza di un impeto piccolo, ordinato, quasi comandato, Stoner faceva il contadino. Stoner, una specie di protozoo mansueto; Stoner guardava verso sua madre e la zanzariera, incollata alla porta, sbatteva… unico quid in movimento dopo le nuvole e lo sbriciolamento del terriccio infiltratosi nelle dita. Stoner, l’università frequentata: quello schema pre-deciso, quel diagramma con sole rette, quel “prima agraria poi letteratura”: quella codecisione svogliata del tempo contro la sua anticipata gobba. E poi la svogliatezza dell’amore che s’era spaccato da puttana anti-provvidenziale partorendo una chimica ormonica innaturale: Edith. La donna di Stoner, la donna fissa come uno scacco matto reiterato: stessa casa, Stoner supino, il soffitto che diceva addio agli occhi provenienti dal letto, il sesso tra accendini senza scintille carnali: il letto di un fiume nuotato da due corpi senza sangue.
Eppure Stoner il sangue ce l’aveva!
Eppure Stoner partecipava al gesto contro la merda del tempo, spremendo la figlia per la Bellezza dell’amore, dopo la compassione. Mentre le nuvole agricole portavano via il padre infiltrandosi, invece, nella prossima morte, fredda, della madre. Il raccolto era anch’esso freddo. La terra era morte.
Eppure Stoner amò, eppure Stoner fece all’amore… aspro e sentito come un giovane con il cuore piantato alla porta della sua donna poco distante dal satellite, che la morte non può fissare. Stoner l’amava, Stoner non s’era ingobbito, con lei, con Katherine, probabilmente s’era involuto contro la dittatura del non-amore, contro la disintegrata, ma totale, infezione del lento avanzare verso la veloce fine dei batteri incontrollabili, imprigionati sotto le maniche di un rito a noi, Noi, misconosciuto: i tumori che coltiviamo senza accorgercene.
Stoner non soffriva di tumori temporali, bensì fisici. Uno lo acchiappò dentro per il tutto e s’espanse oltre quello sfiato vaporoso ch’era la nuvola sfusa, purpurea, abbattuta per riflesso nei suoi occhi stanchi.
Stoner… Grace ( ormai femmina americana pronta per condurre con occhi vitrei un processo di consolazione mortale e sfornare altri figli e poi abbattere la propria figa quando le nuvole si diranno nere come gli anni che accumulerà e sarà cenere del Missouri, cenere di Stoner); il cancro come scintilla, il cancro di proprietà di Stoner. Una sua cosa, una cosa di sua proprietà esclusiva.
….Cos’altro possedeva, oltre la sua ombra veloce come i panni stesi ma poi strappati a morsi dagli stessi venti che Stoner non ha mai smesso di conoscere?
Io dico la sua “stessa” morte, e voi?
Voi possedete la morte?
Amen