Siamo negli anni successivi alla caduta del fascismo. Il biennio 1945–1946 porta con sé un’ondata di entusiasmi politici che accompagna anche l’attività di Eugenio Montale, il quale si iscrive al Partito d’Azione, partecipa al Comitato di Liberazione Nazionale della Toscana e fonda “Il mondo”. Ma è questione di pochissimo tempo: lo scontro tra “le due Chiese, quella nera (la Democrazia Cristiana) e quella rossa (il Partito Comunista Italiano)” lo induce a ritirarsi dall’impegno politico.
Siamo alla fine del 1947. Il poeta ligure comincia quindi a collaborare con il Corriere della Sera.
Al giornale ci arriva come autore di celebri versi, ma anche e soprattutto come un’altra grande firma da aggiungere al giornale (non si dimentichino, tra le altre, quelle di D’Annunzio, di Pirandello, ecc.). Il suo incarico è quello di curare come redattore la terza pagina, suggerendo nomi di collaboratori, e di giudicarne gli articoli prima della loro pubblicazione. Il suo minuzioso lavoro di redattore esemplare lo vede cominciare, come chiunque altro, nelle vesti di un qualsiasi giornalista anonimo, per regalare poi al giornale articoli magistrali, vere perle.
La sua collaborazione giornalistica è quindi fatta di elzeviri, di culs de lampe, come li chiama lo stesso Montale. D’altronde il direttore di allora, Mario Borsa, era stato esplicito: non gli si chiedono recensioni, bensì “qualcosa di originale, di suo, di vivo”. E’ da questa sollecitazione che nasce Farfalla di Dinard, un’opera in prosa, la prima in effetti con evidenti intenti narrativi.
L’autore ruba il titolo da un caffè di Dinard, località bretone, dove vedeva “una farfallina color zafferano che veniva a trovarmi e mi portava (così mi pareva) tue notizie”, una farfalla che dopo la sua partenza non compare più. Un modo, non esattamente come un altro, di evocare un amore cui si sta dicendo addio.
Il libro è suddiviso in sezioni. Nella prima sono i ricordi d’infanzia e gli episodi legati alle villeggiature giovanili a Monterosso ad avere il sopravvento. Si manifesta, adesso più che mai, la sofferta consapevolezza di un passato contrapposto polemicamente a un presente superficiale, fatto di dimenticanze e smarrimenti.
All’interno di un brano dal titolo Il bello viene dopo, pubblicato per la prima volta sul Corriere il 4 marzo del 1950, compaiono una signora, espressione della civiltà moderna, e un signore legato invece al passato, al suo passato. La ragazza beve il manzanillo, una nuova bevanda.
“Dovresti abituarti al manzanillo, – disse la ragazza […] – Non fa morire, porta via il ricordo di tutto. Dopo saresti come una donna che ha saltato il fosso, che non ha più paura di nulla. Ma tu vuoi restarci dentro, nel fosso; a pescarci le anguille del tuo passato.”
Le anguille di Montale sono il simbolo della vitalità dell’infanzia, della forza biologica dell’esistenza, unica alternativa per la poesia e per se stesso. Solo identificandosi con essa, con l’anguilla, si imparerà a vivere nel fango e nel deserto della società contemporanea. Il “bello” che verrebbe dopo è quello della completa omologazione allo stato delle cose. Sono lucide considerazioni che segnano un passaggio fondamentale, per lo scrittore, verso analoghe soluzioni che saranno messe in pratica, in poesia, a partire da Satura. Sta per tramontare la stagione delle speranze nel futuro; quella della rievocazione del passato è già andata persa: domina il presente, con la sua prepotente autorità, che concede al poeta un tono amaramente divertito, e nulla più.
Come ricorda Calvino,
“le proposte di consolazione che vengono offerte a Montale sono quelle degli irrazionalismi contemporanei che egli via via valuta e lascia cadere con una scrollata di spalle, riducendo sempre la superficie della roccia sui cui poggiano i suoi piedi, lo scoglio cui s’attacca la sua ostinazione di naufrago.”
Un naufrago che non è stato sommerso dal mondo, ma ha saputo trovare lo spazio per rivolgersi al cuore della gente, attraverso la sua grande opera di poeta, di prosatore, di giornalista, di uomo.