Abito a trenta metri dal suolo
Abito a trenta metri dal suolo
in un casone di periferia
con un terrazzo e doppi ascensori.
Questo era cielo, mi dico
attraversato secoli fa
forse da una fila di aironi
con sotto tutta la falconeria
dei Torriani, magari degli Erba
e bei cavalli in riva agli acquitrini.
Questo mio alloggio e altri alloggi
libri stoviglie inquilini
questo era azzurro, era spazio
luogo di nuvole e uccelli.
L’aria è la stessa: è la stessa?
sopravvivere: vivere sopra?
Non so come mi sento agganciato
la sera ha tempo di farsi più blu
da un pallido re pescatore
o, di passaggio qui in altro,
dal vero barone di Munchausen.
Luciano Erba
Come riconoscere l’ordinario di tutti i giorni senza scadere, cadere o inciampare in nuvolazioni mentali rafforzate spesso dalle forme e dai colori d’uno squallore squillante e silenzioso. Il poeta milanese (scomparso nel 2010 all’età di ottantotto anni) riporta in maniera non poco ironica le sue lente inanimate riflessioni, allusioni, stracariche, a lavori letterari nei quali il fulcro risultava essere la patetica condizione basso-borghese, sporca e ridicola, in un ambiente che per nulla riconosce lo spiccato senso umano di bellezza e agio (“Il nastro di Moebius”, “Le giovani coppie”). Il sogno si sviluppa “vero l’alto”, con il naso all’insù, in una ricerca ed in un rimescolare d’idee che senza dubbio alcuno non hanno alcuna speranza di divenire realtà, eppure lo sviluppo verticale del “casone di periferia” non riesce minimamente ad aiutare il poeta verso questo lontano obiettivo, anzi lo discosta, essendo l’orrido simbolo del “distacco” privo di pensiero.