Sembra un dato di fatto che l’uomo – e forse la donna ancora di più – abbia bisogno di una certa dose di finzione, vale a dire, abbia bisogno dell’immaginario oltre che dell’accaduto e del reale. […] Ha bisogno di conoscere il possibile oltre che il vero, le congetture e le ipotesi e i fallimenti oltre ai fatti, ciò che è stato tralasciato e ciò che sarebbe potuto essere oltre a quello che è stato.
Quando inizia a scrivere, Javier Marías non sa dove andranno a parare i suoi romanzi: “se avessi già in mente una trama, probabilmente non scriverei più quella storia”. Si lascia trasportare da un’impressione, un pensiero intravisto chissà dove e mai agguantato, una fugace abbagliante visione. Il mio incontro con l’incedere balzellante della sua scrittura non è stato immediatamente felice. Prosa ridondante, estemporanea, ricca di digressioni e parentesi che spezzano il filo del discorso narrativo, frasi ripetute ossessivamente come mantra che affascinano e stordiscono nel tentativo di fissare l’originario moto interiore, il dettaglio penetrante che ha innescato la riflessione da cui nasce la storia. Javier Marías non è uno scrittore facile da abbordare. Il suo stile prolisso e distratto, che volutamente genera confusione, richiede un assestamento. Bisogna avere pazienza per superare lo spaesamento iniziale e proseguire la lettura, molta fiducia per lasciarsi trasportare in un vortice di immagini indefinite e oniriche di cui non si ha ben chiara la traiettoria. Quando ci si entra appieno però, l’effetto è intensamente sconcertante. La realtà smette di esistere, lascia il posto ai suoi simulacri spettrali, si colora di mille sfumature e apre i suoi orizzonti alle infinite dimensioni del possibile (ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, ciò che non è stato ma avrebbe potuto essere), alle migliaia di altre realtà che corrono parallele alla nostra, la sola – purtroppo o per fortuna – che conosciamo.
Javier Marías nasce (1951) in una Spagna franchista intollerante ai dissidenti: suo padre, Julian Marías, filosofo e allievo di Ortega y Gasset, viene esonerato dall’insegnamento universitario con l’accusa di essere repubblicano e sarà costretto a frequenti soggiorni negli Stati Uniti – dove Javier bambino avrà la fortuna di essere vicino di casa di un ultracinquantenne Nabokov – che gettano un seme cosmopolita germogliato poi nelle ambientazioni dei suoi romanzi, in cui l’atmosfera madrilena emerge, ma in chiave moderna e emancipata da quella nostalgia folkloristica in cui sono abituati a riconoscersi i lettori spagnoli.
L’ambiente familiare è stimolante, Javier inizia a scrivere undicenne, diciannovenne pubblica il suo primo romanzo di ritorno da una fuga parigina durata pochi mesi, durante i quali viveva suonando la chitarra agli Champs Elysées e respirando una decadente aria bohémien. A Madrid si laurea alla Facoltà di Lettere e Filosofia e inizia a lavorare come traduttore, mestiere precario che suscita le apprensioni della madre – la cui scomparsa prematura lo segnerà profondamente e stimolerà le riflessioni sulla precarietà della vita e sull’imprevedibilità della morte, “la morte orrenda, la morte ridicola”, che si ritrovano nei suoi romanzi con tratti gotici e quasi inquietanti.
I sei anni trascorsi a tradurre l’opera dei grandi autori stranieri non danno alla luce nessun nuovo romanzo ma gli offrono nuovi spunti di riflessione. Tradurre un’opera significa riscriverla, reinterpretarla conservandone intatti suoni e intenti originari. Forse avviene proprio in quegli anni il volontario esilio dalla realtà che si coglie nell’opera di Marías: è la lingua a forgiare l’immagine della realtà, una realtà che appare sempre più effimera, inconsistente, vaga, succube delle interpretazioni. Il distacco da un reale inafferrabile, terreno malsicuro su cui muovere i propri passi, diviene necessario per centrare lo sguardo sull’interiorità, migrare in una dimensione atemporale, popolata di immagini oniriche che tuttavia hanno più corpo e spessore delle persone in carne e ossa.
I romanzi di Javier Marías non sono mai autobiografici: la realtà, sottoforma di un pensiero ricorrente, è punto di partenza per sviluppare un discorso tutto interiore che invece di raccontare l’accaduto dà voce all’inespresso, all’irrealizzato, all’irreale. Un mondo in cui anche l’autore si smarrisce, lasciandosi distrarre e trasportare dall’incessante flusso della scoperta, coniugando in modi sempre nuovi quel verbo di derivazione latina, inventar in spagnolo, inventare, che ha radici nell’arte maieutica del disvelamento.