Un incontro imprevisto, un dettaglio banale, una storia comune ascoltata per caso al bancone di un bar. Basta poco a riaccendere la miccia dell’ispirazione. Da quel particolare insignificante inizia a dipanarsi una storia, te la racconti con la voce di dentro mentre te la vedi scorrere davanti con gli occhi della mente, luminosa come una pellicola di un film appena nato, che stai costruendo in quell’istante e ancora non sai come andrà a finire. Allora inizi a fremere e a sudare, infiammato dal fuoco sacro della passione, e aspetti ansiosamente il momento di tornare a casa, per sederti alla scrivania davanti al foglio bianco e raccontare a parole quella storia.
È così che nascono i romanzi. Chiunque abbia provato, almeno una volta nella sua vita, a scrivere una storia, sa bene di cosa parlo. È febbre e furia, cieca e devastante, è forza travolgente della vita che ti arpiona all’ombelico e ti trascina non sai come, non sai dove. Una sola cosa sai: che è irresistibile, e non puoi fare altro che seguirla. Ecco. Così scriveva Georges Simenon. Arso da quella fiamma brulicante e inarrestabile. A matita, in quella sua calligrafia pesante e minutissima, oppure alla macchina da scrivere, macinando fogli su fogli di frasi scarne e parole nude, essenziali, non faceva differenza. L’importante era sbrigarsi. Perché la scintilla dell’ispirazione faceva presto a spegnersi. Durava una settimana, al massimo dieci giorni, prima di estinguersi definitivamente e senza lasciare ceneri. E allora bisognava fare il più presto possibile, inseguirla, rincorrerla, non lasciarla svanire, anche a costo di perdere qualcosa. E in questa corsa forsennata verso il traguardo Simenon si lasciava dietro ogni tipo di abbellimento estetico, orpello esclusivamente letterario. E un pezzo della sua anima. Che evaporava dal corpo nei cinque chili di sudore – ottocento grammi per ogni capitolo – che lo scrittore perdeva nel giro di una settimana. Il tempo sufficiente a dare alla luce un intero romanzo.
Criticato come uno scrittore popolare e misconosciuto dai circoli letterari dell’epoca, oggi Georges Simenon, noto ai più come padre del commissario Maigret, oltre a essere uno degli autori più prolifici e tradotti della storia (occupa il sedicesimo posto della classifica stilata dall’UNESCO), con i suoi oltre 500 tra racconti e romanzi psicologici e polizieschi è considerato un autore classico. L’uomo che guardava passare i treni (1938) rientra nella nostra classifica dei 50 libri da leggere assolutamente.
Così si raccontava, l’artigiano delle parole, in un’intervista rilasciata alla Rai:
Non abbiamo nulla da guadagnare, noi scrittori, a frequentare altri scrittori. Noi dobbiamo frequentare gente qualunque. Lo scrittore non è un uomo normale di solito, è già una specie di quintessenza. Quando io parlo col sindaco del paese parlo dei problemi del paese: e questo è interessante; quando parlo con un fattore che mi parla delle sue mucche, questo è interessante. Ma quando sto con uno scrittore e mi parla di letteratura, questo non mi interessa.
L’altra sua grande passione erano le donne. Con Tigy (Régine Renchon), sua prima moglie, viaggiò in lungo e in largo durante tutti gli anni Trenta, prima di rifugiarsi negli USA per sfuggire alle accuse di collaborazionismo con il regime nazista e con cui ebbe il primo figlio, Marc. Denyse, la giovane segretaria americana che sposò nel 1950 (appena ottenuto il divorzio da Tigy e per mettere a tacere lo scandalo della sua gravidanza che nel 1949 si era conclusa con la nascita del loro primo figlio, John, cui seguirono Mary-Jo, in seguito morta suicida, e Pierre) si lasciò completamente assorbire dalla dissoluta follia del marito, diventando complice delle sue avventure extra-coniugali e incamminandosi con lui sulla strada di un alcolismo che fu per lei senza ritorno e la condusse infine in una clinica psichiatrica. A raccogliere i cocci di una vita nomade e mai paga (raccontata nel diario autobiografico Quand j’étais vieux) fu Teresa, governante di origine friulana dalle spalle forti che lenì le pene di un uomo ormai stanco, restandogli accanto fino alla fine. E tra queste migliaia e migliaia di altre donne senza volto né nome, compagne fuggevoli di una notte di emozioni rubate allo scorrere inarrestabile del tempo, nel tentativo di fissare qualche attimo di eternità.
La scrittura però fu il suo unico e vero amore. Donna e Musa, essenza totalizzante e irrimandabile. Georges Simenon era un attento osservatore, aveva un carattere analitico che si lasciava sedurre dai particolari. I personaggi che incrociava a metà tra realtà e immaginazione avevano un effetto pervasivo, abbandonico. Georges lasciava se stesso per immergersi completamente nella corrente fluida di un’altra identità, si spogliava di sé per diventare qualcun altro, un qualcuno che, seppure forgiato dalla sua stessa immaginazione, gli succhiava talmente tanta energia vitale da diventare presto ben più reale di lui, da acquisire un corpo e una personalità indipendenti dalla volontà del suo creatore e dotati di libero arbitrio letterario. Georges Simenon ha creato un universo di cui la sua penna era solo uno strumento.
Quando se ne accorse lo sfiorò la pazzia. L’essere continuamente altro da sé, ogni volta diverso, è psicologicamente devastante. Alla fine quello stesso bisogno di evasione e conoscenza che ha caratterizzato la sua vita, in fuga continua verso nuove mete, ma forse da se stesso, l’ha costretto a fermarsi. A smettere di scrivere. La decisione la prese nel 1973, dopo cinquant’anni esatti di attività letteraria ininterrotta. Da allora in poi non toccò più le sue affilate matite – se ne serviva a dozzine per scrivere, temperandole con metodica e calma precisione – né la macchina da scrivere. Si limitò a far defluire i pensieri attraverso la voce, in lunghi soliloqui sussurrati all’orecchio muto di un registratore vocale – da cui nacquero i famosi Dictée. Smettere di scrivere per mettere un punto. Come riemergere dalla lettura di un romanzo lunghissimo e avvincente durato cinquant’anni. Così Georges Simenon guarì da quella febbre narrativa che l’aveva accompagnato per quasi tutta la vita. Una vita trascorsa in un perenne état de roman, quello stato di grazia che rende illuminate e immortali le esistenze dei grandi.